Il leitmotiv dei giorni successivi alle nomination per gli Oscar 2016 non è se DiCaprio riuscirà a centrare il suo primo chimerico Oscar, ma un elemento riassumibile – per la necessità di noi media di semplificare e spesso banalizzare i concetti – in un hashtag creato ad hoc: #OscarsSoWhite. Ovvero: perché le nomination dei prossimi Academy Awards – in programma il 28 febbraio – sono sostanzialmente prive di candidati afroamericani, asiatici o latinos? A riemergere con prepotenza è la connotazione WASP dell’Academy, un acronimo che, come noto, definisce la maggioranza della popolazione statunitense, White Anglo-Saxon Protestant, la categoria degli uomini scesi dalla Mayflower. Sì, ma le cosiddette minoranze?

Lack of diversity: negli States, sui magazine e sui portali di spettacolo, non si legge d’altro in questi giorni. Con tale espressione si intende la mancata rappresentazione di quel meraviglioso minestrone razziale che sono gli USA (melting pot) in un momento in cui non solo il mondo intero avrà le antenne puntate sull’America, ma che sarà anche di celebrazione e riconoscimento per l’arte. La stessa Cheryl Boone Isaacs, presidente afro-americana dell’Academy, si è detta affranta e frustrata per tali lacune, sostenendo la necessità di apportare modifiche alla composizione dei membri dell’associazione. A soli due anni, tra l’altro, dal trionfo di 12 anni schiavo, che sancì la prima vittoria di un film di un regista di colore (Steve McQueen), e quella della keniota Lupita Nyong’o. Ultimi esempi di una lista anche piuttosto ricca di vincitori afro, da Denzel Washington a Whoopi Goldberg, fino a Sidney Poitier, in un’epoca (1964) in cui la questione era decisamente più sentita. Lo stesso McQueen, intervenuto sulla vicenda, ha definito gli Oscar 2016 “come MTV nel 1983“, con netta supremazia bianca, augurandosi che “tra 12 mesi ci guarderemo indietro e questo sarà considerato un momento di svolta“.

A leggere poi i nomi di chi è intervenuto sull’argomento pare inevitabile gridare al complottismo: Spike Lee, che sembra vivere ormai in una sorta di gioco di ruolo chiamato ‘Caccia al razzista’ o Michael Moore, che quando si tratta di protestare, anche per l’amatriciana senza guanciale, c’è sempre, dappertutto. Tuttavia, come risponde Giulio Andreotti/Toni Servillo a Eugenio Scalfari ne Il divo, la situazione è un po’ più complessa. Una stato delle cose che, per essere analizzato in maniera distaccata, ha innanzitutto bisogno di partire da una certezza – Hollywood è una grande industria, ancora prima di essere lo specchio degli Stati Uniti – e dai freddi numeri. Che ci rivelano che l’ultimo Oscar assegnato a un’attrice asiatica risale al 1957 (la giapponese Miyoshi Umeki per Sayonara) e che l’ultima attrice dell’America latina a conquistare la statuetta è la portoricana Rita Moreno, per West Side Story, nel 1961. In anni più recenti si scorgono alcune nomination sparse, come quelle di Salma Hayek per Frida (2002) o di Catalina Sandino Moreno (Maria full of Grace, 2004). Un po’ più presenti gli uomini, con il portoricano Benicio del Toro ultimo latino a vincere l’Oscar (Traffic, 2001) o il cambogiano Haing S. Ngor di Urla del silenzio (1984).

Samuel L. Jackson in 'The hateful eight' (The Weinstein Company/Robert Richardson
Samuel L. Jackson in ‘The hateful eight’ (The Weinstein Company/Robert Richardson

Da rigettare in toto le analisi di chi chiama in causa gli Oscar degli anni ’20 e ’30: una società razzista come quella non può far testo. Non sarebbe però nemmeno onesto sminuire il dibattito, visto che ha coinvolto numerosi addetti ai lavori, coloured e non. Danny De Vito ad esempio si è detto niente affatto sorpreso, dato che secondo lui la società americana è formata da un mucchio di razzisti. C’è chi boicotterà la cerimonia, come Jada Pinkett Smith e il marito, Will, e chi li critica (Janet Hubert, la Vivian di Willy, il principe di Bel-Air), sostenendo che si tratti di una rosicata. Chi poi, come Snoop Dogg, manda a quel paese il sistema (Fuck da. Oscars su Instagram) e chi, come Dustin Hoffman, parla di razzismo subliminale insito negli USA, trovando un nesso tra le nomination e gli episodi avvenuti nelle strade (come a Ferguson) tra poliziotti bianchi e ragazzi di colore.

D’altro canto, non si può dire poi che Charlotte Rampling, una delle candidate come attrice protagonista (per 45 years) non abbia le idee chiare in merito: “È un discorso razzista nei confronti dei bianchi Non si può mai sapere, ma forse gli attori di colore non hanno semplicemente meritato la candidatura“. Di avviso simile è Michael Caine, vincitore del primo Oscar nel 1987 (Hannah e le sue sorelle) a quasi 40 anni dall’esordio sulle scene: “Non puoi dire: ‘Voterò per lui, non è bravo ma è nero’. Bisogna essere pazienti: a me ci son voluti anni per arrivare all’Oscar“. Due pensieri in apparenza materialistici ma che hanno la loro solida base logica.

'Straight Outta Compton', diretto da F. Gary Gray (Legendary Pictures/Matthew Libatique)
‘Straight Outta Compton’, diretto da F. Gary Gray (Legendary Pictures/Matthew Libatique)

Tuttavia, oltre le statistiche, la retorica anti-WASP e la storia di un Oscar che ha riflettuto per decenni pregi e difetti di una società in evoluzione, bisogna anche contestualizzare ciò di cui si dibatte. Si discute per esempio dell’assenza di un candidato afro o latino tra gli attori protagonisti: visto che c’è Sylvester Stallone tra i supporting, perché non dare una chance a Michael B. Jordan, protagonista di Creed? E perché negare la candidatura all’impressionante Idris Elba di Beasts of no nation? E ancora, lo stesso del Toro in Sicario o il Samuel L. Jackson di The hateful eight non avrebbero meritato la nomination come non protagonisti? In definitiva pare non esserci nulla di scandaloso in queste esclusioni. Almeno non più di quanto ce ne fosse nell’assenza l’anno scorso, tra i registi, di Ava DuVernay (Selma) o sempre quest’anno nel caso di Tarantino per film e regia.

Anche perché poi, i sostenitori della lack of diversity dovrebbero avere l’accortezza di spiegare come mai un messicano venuto dal nulla l’anno scorso abbia sbancato e quest’anno rischi di fare il bis. La soluzione – anche parziale, se volete – al dubbio Oscar razzista o no? si chiama Alejandro González Iñárritu. Se tu, regista o attore, conquisti me (Academy), certamente a maggioranza WASP ma soprattutto interessata al successo dell’industria, io ti premio. Fammi guadagnare, in sostanza, e io ti darò quella statuetta: chi cerca la qualità assoluta, slegata dal marketing, avrà miglior fortuna guardando a Cannes o Berlino. Che non si scomodino però slogan e paragoni pericolosi, perché a forza di gridare “Al lupo, al lupo!“, il vero razzismo si rischia di perderlo di vista. Lo sosteneva anche il signor Spike Lee nel fulminante monologo di Edward Norton ne La 25a ora: “In c**o ai negri di Harlem: non passano mai la palla, non vogliono giocare in difesa, fanno cinque passi per arrivare sotto canestro, poi si girano e danno la colpa al razzismo dei bianchi. La schiavitù è finita 137 anni fa! E muovete le chiappe! È ora!“.