Abbiamo scelto con attenzione l’obiettivo da colpire con il nostro attentato. Il governo sta prendendo di mira le nostre famiglie e le nostre donne. Vogliamo che provino lo stesso dolore“. Queste parole venivano pronunciate solo poche ore dopo uno di quegli avvenimenti che rimangono indelebili nella Storia e nella vita di chi ne viene toccato più o meno indirettamente. A pronunciarle fu il portavoce dei talebani pachistani, Mohammed Umar Khorasani. Era il 16 di dicembre quando i talebani del Ttp (Tehreek-e-Taliban Pakistan) attaccarono una scuola in Pakistan facendo l’ennesima strage indecente che colpí 130 bambini. La situazione del Pakistan è di emergenza, continua, perenne, frustrante e logorante. Perfino la speranza sembra aver lasciato alcune zone del Paese.

La notizia che negli ultimi giorni è balzata alle cronache estere, è solo una delle tante misure precauzionali che il Pakistan è costretto a prendere per far fronte alla presenza costante dei talebani che non solo non modificano negli anni la loro tecnica scientifica del terrore, ma non la affievoliscono ed anzi, alzano il tiro. Il primo ministro ha di fatto armato gli insegnanti: non è una questione del farsi giustizia da soli ma del difendersi da soli. Là dove lo Stato non può essere sempre presente, le maestre fanno un corso per imparare a sparare e portare quell’insegnamento nella propria classe per poterla difendere. Una presa di coscienza.

credits foto: piattaformainfanzia.org
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Intervistato dalla CNN un insegnante ha dichiarato di portare in classe una pistola poggiandola sulla cattedra, riportando la paura dei suoi studenti: “Voltano lo sguardo alla porta ogni volta che sentono un rumore. Ora che mi vedono con una pistola non si preoccupano e possono concentrarsi sul loro lavoro, che è istruirsi“. Le conseguenze dell’attacco di dicembre sono tante, e riguardano anche alcuni provvedimenti messi a punto nella provincia tribale di Khyber Pakhtunkua: il governo centrale ha stanziato infatti 70 milioni di dollari per rafforzare le misure di sicurezza negli istituti scolastici. Cecchini sui palazzi, video sorveglianza, filo spinato. Il Pakistan è un Paese sotto attacco perenne, un attacco subdolo appunto.

Il Pakistan sembra essere a tutti gli effetti un Paese in balia di se stesso. I rapporti con l’Occidente si riaccendono platealmente con gli attentati, come quello di dicembre in cui tutti i presidenti e perfino qualche ministro, su Twitter si sono scatenati per condannare la morte di innocenti per mano dei talebani. Certo è che dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, avvenuta il 1° maggio 2011 nei pressi di Islāmābad, le relazioni internazionali sono quanto meno state modificate. Il blitz delle forze militari statunitensi ha messo in luce una situazione poco chiara o forse fin troppo chiara: i dubbi infatti sulla possibile connivenza fra servizi segreti pachistani e gruppi terroristici hanno incrinato le tensioni con gli Stati Uniti.

credits foto: iljournal.today
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Quella in atto in Pakistan è una deriva. Per quanto si tenti di bloccare la psicosi, la siccità, la povertà, le notizie smentiscono quasi ogni tentativo di ripresa. La parte più debole della popolazione subisce il peso di una situazione che si protrae da anni. Secondo una recente indagine il Pakistan è il Paese con il più alto tasso di bambini di strada: minorenni che vengono arruolati o fatti oggetto di abusi. La cifra è spaventosa: si aggira fra tra 1,2 e 1,5 milioni. Il colabrodo burocratico lo ha in mano un capo di Stato che forse ha poche chances, Sharif infatti fatica a tenere in piedi la democrazia votata nel 2004.

Il 30 gennaio si è verificata l’ennesima strage dopo un attentato in una moschea sciita nel sud del Pakistan, a Shikarpur, che ha ferito a morte almeno 55 persone fra cui tre bambini. L’evento ha messo in luce un altro problema che Sharif è costretto a constatare. L’attentato infatti è stato rivendicato da Fahad Marwat, portavoce di Jundullah, ovvero del gruppo scissionistico dei Talebani pachistani che si è schierato ormai da tempo con i jihadisti dello Stato Islamico che controllano parte della Siria e dell’Iraq. È chiaro che le tensioni derivanti da questi gruppi scissi sono destinate ad aumentare.

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Il sud del Paese generalmente non è colpito in modo così sanguinoso e questo è un altro elemento che rivela in una cartina tornasole quanto il terreno sia davvero minato. I tentacoli della piovra terroristica, dei talebani o dei militanti dell’Isis che siano, riescono a penetrare ovunque, a maggior ragione in un clima di tensioni e carenze. L’attacco religioso verificatosi a Shikarpur è il più sanguinoso dell’ultimo anno ed è stata chiaramente studiata a tavolino nei minimi dettagli per farlo coincidere con la visita di Sharif nella zona provinciale di Karachi che guarda caso è il centro economico del Paese.

I messaggi impliciti e espliciti dei terroristi sono chiari. Dal terrore che si insinua nelle pieghe più sottili e radicali del Paese, alla forza dell’affermazione attraverso il sangue degli innocenti che viene versato per vendetta in un ciclo incontrollabile, in una giostra di paura che di certo il Pakistan non può combattere da solo. Questo rimane il punto fermo della situazione. Siria e Iraq sono monitorate, rimangono sotto i riflettori. Il Pakistan no, paga per errori e per una certa indipendenza fittizia che però non può diventare un alibi.

[Fonte cover: www.ibtimes.co.uk]