Il 14 Giugno 1996 Pavel Nedved aveva 24 anni. Era un calciatore in via di affermazione nella Repubblica Ceca, che da pochissimi anni non era più Cecoslovacchia. Giocava nello Sparta Praga, ma era in Inghilterra con la propria nazionale. Per Euro 1996. Il punto più alto della nazionale ceca nel calcio, con quella finale persa al golden goal contro la Germania di Bierhoff. Ma il 14 Giugno c’era Italia-Repubblica Ceca, ad Anfield, mica in uno stadio qualunque. E Nedved giocava contro la nazione che lo avrebbe consacrato di lì a qualche anno. Ma lui non lo sapeva ancora. E segnò nei primissimi minuti. Quel ragazzo con la chioma bionda ancora corta, che impressionò l’Europa. E la Lazio.

I biancocelesti lo comprarono l’anno seguente. Ci rimase per più di qualche anno. Tempo di prendersi un sombrero da Cafù ma soprattutto di vincere uno scudetto, una Supercoppa italiana in finale contro la Juventus (con gol), una Coppa delle Coppe (realizzando l’ultima storica rete della competizione, giunta all’ultima edizione). E una Supercoppa Uefa contro il Manchester United che nella Roma biancoceleste è ancora storia. Pavel Nedved diventa un simbolo di quella Lazio. Forse la Lazio più bella di sempre. Diventa anche un simbolo di quel calcio a cavallo tra gli anni ’90 e il nuovo millennio. Tra il fascino della radiolina alla domenica pomeriggio e l’abbonamento a Stream per vedere la partita. Poi il profilo economico, meno fascinoso, del Real Madrid costringe la Juventus a vendere Zinedine Zidane. E il sostituto è proprio quel Nedved che nella Lazio aveva fatto benissimo. Comprato per la metà della cifra (150 miliardi) investita dai blancos nel francese, Nedved diventa una bandiera della Juventus. Tanto da diventarne poi anche dirigente. Prima però ha vinto un pallone d’oro. Dimostrando di essere almeno per un anno il migliore del mondo.

Quel ragazzo che non aveva la tecnica di Maradona, né la genialità di Baggio. Ma era stato in grado di costruire il proprio successo sulla professionalità. Sugli allenamenti ad oltranza, sulle corse mattutine prima di andare all’allenamento, sulla vita regolare, sull’abnegazione, sulla rincorsa dei sogni. Perché Pavel Nedved prima di essere stato un pallone d’oro è stato il simbolo di un modo di giocare al calcio, e di buttare il cuore oltre l’ostacolo sempre. Ma lui alla Juve ha vissuto anche l’amarezza grande delle lacrime in campo. Era Juventus-Real Madrid, ed era una semifinale di Champions. Nedved aveva una sorta di ossessione per la Champions. Non la vincerà mai. E non lo dice, ma l’avrebbe barattata per 10 anni di vita. In quella semifinale segna e va sotto la sua curva, in un Delle Alpi caldissimo. Poi viene ammonito per un fallo stupido a metà campo. Si inginocchia. E a fine partita piange, consolato da Di Vaio. Il sogno di una vita, e di un popolo intero, ma lui non ci sarebbe stato. E c’è qualcuno che ancora oggi si chiede come sarebbe andata se Nedved fosse stato in campo nella finale di Manchester tra Juventus e Milan. Lui pianse, noi non lo sapremo mai.

Ha lasciato tanti ricordi belli Nedved. A Roma e a Torino. Ricordi di gol pesanti, bellissimi. Dei primi tempi alla Juventus, quando non trovava la posizione in campo prima della rivoluzione tattica di Lippi e del “nuovo” ruolo da trequartista. Di un gol al Piacenza che vale uno scudetto alla vigilia del famoso 5 Maggio, e di una Serie B per amore della propria maglia. Prima di rifiutare l’Inter, che andrà a vincere la Champions senza di lui. Quella di Champions che può valere tanto, ma non la stima di una tifoseria. E lo sa bene, Pavel. Perché è uno degli ultimi romantici del nostro calcio, ed è uno che rappresenta bene Juventus e Lazio. Con quell’accento dell’est, le poche parole e le corse sotto la curva. Poi la testa bassa, perché il successo si costruisce così. Me lo ha insegnato Pavel.