“Un incontro magico che ci ha dato tanto“. Con queste parole Petra Magoni, voce del duo Musica Nuda insieme a Ferruccio Spinetti al contrabbasso, commenta l’origine di un fortunato sodalizio musicale che da oltre dieci anni firma progetti artistici di pregio e gira il mondo, dal Sud America al Giappone, senza dimenticare le origini, l’Italia. Fedele il pubblico che li ha conosciuti attraverso gli oltre mille concerti che li hanno consacrati un gioiello sfuggevole dalla classificazione canonica in generi musicali: sì intriso di influenze jazz, ma forte di variegate contaminazioni internazionali.
Musica Nuda, Complici, Banda Larga tra gli album di maggior successo – l’ultimo dei tre per festeggiare i dieci anni del matrimonio artistico della coppia – fino a Little Wonder, l’ultima fatica firmata Warner Music, realizzata nel 2015 e in Tour in Italia e nel mondo. Undici cover – dalla sperimentazione del reggae di Bob Marley in Is This Love al pop sofisticato di Practical Arrangement di Sting; da Vecchio errore di Paolo Conte, immancabile perla d’autore nostrana, alla rivisitazione francese di Stessa spiaggia, stesso mare, intitolata Tout S’Arrange Quand On S’Aime – per un ritorno alle origini.
In attesa di esibirsi nell’amata Sicilia il prossimo 16 Gennaio a Catania, abbiamo intervistato Petra Magoni per condividere insieme memorie, impressioni e sogni di quella magica avventura chiamata ‘Musica Nuda’.
Avete 12 anni di carriera alle spalle, eppure conservate la freschezza di chi si affaccia alla musica e al suo pubblico sempre con meraviglia. Quanto siete cambiati e quanto si è evoluta la vostra musica dagli esordi ad oggi?
Lo stupore c’è stato sin dall’inizio nel mescolare insieme i nostri strumenti e nel suono che ne è venuto fuori. Da subito è nata una grande intesa con Ferruccio, ma negli anni siamo cresciuti molto. Io ho lavorato sulle note basse della mia voce, mentre la parte acuta era già naturalmente presente. Ferruccio, invece, ha dovuto imparare il suo strumento non come un bassista ma come un gruppo intero. Siamo cresciuti molto anche grazie ai tanti concerti fatti in tutto il mondo. Le nostre esplorazioni musicali non sarebbero state possibili in una formazione tradizionale.
Se Ferruccio non avesse incontrato Petra, e viceversa, oggi le vostre carriere che strada avrebbero preso? In cosa ognuno dei due è indispensabile all’altro?
Io avevo già una visione della mia voce per certi versi chiara, per altri nebulosa. Non volevo essere una cantante ‘scolastica’. Ho sempre saputo di avere una voce diversa e questa diversità mi piaceva, però finché non ho incontrato Ferruccio non ho trovato veramente la mia strada e tanti aspetti della mia voce non arrivavano. Il fatto di avere tanti spazi vuoti mi dà molte possibilità, come il poter passare dal sussurro al grido, che in un trio non avrei. La possibilità di usare la voce come uno strumento stesso, pur mettendo al primo posto le parole, il testo, la storia di una canzone – quindi non con una sperimentazione fine a se stessa, ma sempre al servizio del pubblico, dell’essere popolari con una musica non d’elite – se non avessi incontrato Ferruccio sarebbe mancato. Anche lui, sì suonava con gli Avion Travel come bassista, ma adesso condivide con me al 50% il gruppo, siamo entrambi leader e questo mi piace molto. Non ho mai amato far l’artista solista con il gruppo alle spalle. Mi piace stare sempre in mezzo al gruppo anche quando suono con altre formazioni, per guardare gli altri e suonare insieme.

Che tipo di risconto avete avuto ultimamente dall’esperienza fatta in Giappone, da un pubblico così diverso per cultura da quello italiano ed europeo in generale?
Hanno una grande cultura musicale. Sono un pubblico che se si appassiona rimane fedele. Ci suona la PFM e quando, per esempio, loro vanno lì riempiono i palazzetti dello sport. Abbiamo suonato in un piccolo club, ma era pieno e c’erano persone che avevano fatto due ore di aereo per venirci ad ascoltare e sono arrivati con tutti i dischi presi su Amazon. Un pubblico attento, che quando conosce e ama un artista non lo molla. Una cosa che ci ha stupito è che – suonando in tutto il mondo, dalla Tunisia alla Russia, agli Stati Uniti – al di là dei confini e delle differenze, la gente ride sempre per le stesse cose, si appassiona per le stesse cose, quindi davvero la musica è un linguaggio universale e un momento di condivisione dove ci si conosce reciprocamente. Il Giappone ci è piaciuto davvero tanto.
Prendendo spunto dall’esperienza giapponese, voi siete più apprezzati in realtà all’estero o in Italia? Qual è il pubblico più sensibile alla vostra ‘poesia in note’?
Il pubblico reagisce sempre e ovunque nello stesso modo. Abbiamo avuto la prima spinta in Franca, dove la cultura e la musica sono tenute più in considerazione e un progetto come il nostro è passato alla radio e in televisione, cose che da noi succedono di rado perché ci considerano un po’ troppo strani, anche se poi non è così. La Francia quindi è stata la nostra prima avventura di successi. Il disco è andato subito in classifica perché siamo usciti subito alla radio in un programma seguito da due milioni di persone. Il pubblico francese è anche più abituato ad ascolti ‘diversi’. Ricordiamoci che il jazz in Francia si faceva già ad inizio secolo, mentre da noi è arrivato dopo, perché nel fascismo era una musica proibita. Ci sono anche aiuti diversi a chi fa musica – persino la disoccupazione per gli artisti – a differenza che in Italia, dove la musica non è percepita come un lavoro per chi la fa. Questo significa che lì la cultura è valorizzata e chi fa cultura altrettanto. Anche in Russia siamo stati accolti benissimo. Abbiamo suonato due volte a San Pietroburgo, all’Hermitage, e a Mosca in un teatro stracolmo dove erano tutti russi. Abbiamo trovato grande passione in ciò che fanno e nella promozione dei concerti. Anche l’Ecuador ci è piaciuto molto e abbiamo trovato persone fantastiche.
C’è un Paese dove ancora non siete stati e che invece vi incuriosisce e puntate ad andarci nel prossimo futuro?
Era proprio il Giappone, tanti anni che volevamo andarci perché intuivamo potesse esserci un grande feeling. È sempre bello andare in giro e scoprire luoghi, persone, culture diverse, al di là del concerto in sé. A noi è sempre piaciuto viaggiare e poterlo fare in questo modo, entrando subito in contatto con le persone del posto, è un grande privilegio.

Avete iniziato dalle cover, siete passati agli inediti, adesso – dopo due anni – un ritorno alle origini con Little Wonder. 11 tracce di successi nazionali e internazionali da Edith Piaf a Paolo Conte, da Stevie Wonder a Sting. La personalizzazione dei successi di grandi nomi della musica vi incuriosisce e stimola più della cantautorialità? Dove trovate maggiore espressione artistica?
Abbiamo iniziato con pezzi altrui solo perché ci siamo incontrati sul palco e dovevamo suonare, senza conoscerci. Così come accade nel jazz, senza essersi mai visti prima si iniziava a suonare le canzonette dell’epoca, lo standard di quei tempi. Per noi lo standard, da italiani degli anni ’70, erano Lucio Battisti o i Beatles, così abbiamo messo sù un repertorio di cover che spaziavano in tantissimi generi, perdendo il genere stesso di significato dato che con noi diventa tutto appunto ‘musica nuda’. Abbiamo inciso subito il primo disco così, dopo pochissimi giorni che ci conoscevamo. Dopo abbiamo sentito l’esigenza di scrivere cose nostre, pur non insistendo troppo sull’originalità dei nostri pezzi. Preferiamo fare una bella cover che non scrivere una canzone mediocre. Mina non ha scritto mai nessuno dei suoi pezzi, eppure è una grandissima cantante. Altri artisti magari si ostinano a scrivere canzoni mediocri mentre ci sarebbero grandi autori pronti a scrivere per loro. Ecco, noi ci andiamo piano sugli inediti.
Perché proprio adesso un ritorno alle cover?
Volevamo fare un disco facile. Il disco precedente – Banda Larga – è stato un disco impegnativo, lungo, dispendioso, perché c’era un’orchestra ed è stato fatto per festeggiare i nostri dieci anni. Abbiamo pagato in quel caso tutto, dallo studio di registrazione all’orchestra e l’arrangiatore. Solitamente con gli altri dischi è stato tutto più facile.
C’è qualche pezzo che avete eliminato a malincuore? E, se sì, sulla base di quale criterio
Sì, sono due. Uno è proprio Little Wonder di David Bowie, che poi dà il titolo all’album, rimasto fuori per un problema di diritti. L’altro è Lately di Stevie Wonder, rimasto fuori perché altrimenti ci sarebbero stati troppi lenti. Peccato.
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Nei vostri concerti c’è sempre tanta emotività. Voi date molto al pubblico durante le vostre performance. Voi invece cosa vi portate a casa dopo ogni esibizione?
Ogni concerto è diverso. Il pubblico è sempre diverso e devi stabilire un contatto e una fiducia reciproca di volta in volta. Stabilito questo, dopo si può andare dappertutto. Siamo ironici e ci divertiamo ovunque, ma poi è ovvio: ci sono brani più drammatici e meno. All’inizio il nostro concerto è timido, per stabilire questo rapporto di fiducia, dopo ci si rilassa, si scherza, diventa tutto un crescendo. Quando il concerto viene proprio bene siamo felici e ci portiamo a casa molto. Quando non suoniamo dal vivo mi manca molto e solitamente dopo una lunga pausa il concerto seguente viene molto bene. Adesso il 16 gennaio suoneremo a Catania dopo la tappa di Catanzaro. Non ci esibiamo da venti giorni. Quindi dovrebbe essere un successo. (ride, ndr.)
Potremmo mai vedervi a Sanremo un giorno o la vostra musica è troppo ‘nuda’ per un pubblico così pluralista?
Non dovresti chiederlo a noi, perché tutti gli anni abbiamo provato a mandare un pezzo. Tranne quest’anno perché ho messo un veto io. Non sono un’appassionata. Sono stata a Sanremo e non se ne è accorto nessuno, per fortuna. Non concepisco la competizione nell’arte. Ferruccio ha invece una visione più positiva avendone vinto uno quando suonava con gli Avion Travel. Lui in questi anni ha sempre spinto per presentare i pezzi. Io non gli ho mai detto di no, ma sapevo che non ci avrebbero considerato. Due anni fa eravamo nella lista fino all’ultimo giorno, poi magicamente siamo rimasti fuori, nonostante avessimo il pezzo con l’orchestra, quindi indicato per Sanremo. Quest’anno non ho voluto provare. Dopo dieci anni ho detto basta.
Avete mai pensato di far scegliere al pubblico le canzoni da portare live ad ogni tappa di un tour? Una personalizzazione della scaletta sulla base dell’affettività del pubblico itinerante verso i vostri pezzi.
Sì, ci avevo pensato e qualche volta via Facebook lo abbiamo anche fatto. Quando esce il disco nuovo chiaramente portiamo i pezzi del disco nuovo, anche se noi non siamo per impegnare interamente il concerto per il disco nuovo, ma suoniamo sempre quello che ci va. Però sappiamo che ci chiedono sempre quelle tre canzoni alla fine – Roxanne, Il cammello e il dromediario e Guarda che luna – e quindi accontentiamo sempre il pubblico.
Grazie a Petra Magoni da Il Giornale Digitale