Una delle notizie più importanti di questa settimana è arrivata mercoledì sera quando la condanna di Stephan Schmidheiny per il processo Eternit è stata annullata senza rinvio perché il reato è caduto in prescrizione. Così il presidente della prima sezione penale della corte di Cassazione, Arturo Cortese, ha recepito la richiesta del procuratore generale Francesco Iacovello che chiedeva l’eliminazione della condanna a 18 anni in secondo grado per il magnate svizzero per disastro ambientale doloso permanente e omissione di misure antinfortunistiche. All’imputato era stata inflitta la condanna dalla corte d’appello di Torino il 3 giugno 2013.
Secondo il pg si è rivelato uno sbaglio contestare il reato di disastro perché, a suo parere, questo tipo di accusa non è retto dal diritto. Per illustrare le caratteristiche del reato di disastro ha usato l’esempio del crollo di una casa, mentre nel caso del disastro che causa morti a distanza di decenni (per via della lunghissima latenza del mesotelioma maligno che si manifesta dopo parecchi anni dalla silente e subdola contaminazione) non è possibile prevedere la permanenza. «Anche se oggi qui si viene a chiedere giustizia, un giudice – il monito del pm Iacoviello rivolto alla Corte – tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto».
Salta così la possibilità per i familiari delle vittime e per le comunità locali di ottenere tutti i risarcimenti . La prescrizione è maturata al termine del primo grado, cioè il 13 febbraio 2012. Com’era prevedibile, i parenti delle vittime hanno mostrato tutta la loro indignazione, rabbia ed incredulità: «Vergogna!», hanno gridato. Nell’aula magna di piazza Cavour e davanti al tribunale si erano ritrovati moltissimi familiari delle vittime per mesotelioma pleurico, il tumore provocato dall’inalazione di polveri d’amianto nei quattro stabilimenti italiani della multinazionale elvetico-belga e tra i cittadini di Casale Monferrato, Cavagnolo in provincia di Torino; Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). Alcuni di loro hanno espresso tutta la loro preoccupazione perchè “non è finita qui e il picco di morti per mesiotelioma si avrà nel 2025” mostrando anche un senso di rassegnazione dicendo che “ci conviviamo, ormai è così”.
Ad aspettare la pronuncia dell’ultimo verdetto in diretta, nell’aula magna della Cassazione, non c’erano solo i cittadini di Casale Monferrato, tra cui il neo commendatore Romana Blasotti Pavesi, presidente dell’Associazione famigliari e vittime dell’amianto (che ha perso marito, sorella, figlia e due nipoti per il mal d’amianto), ma anche delegazioni da tutta Italia e da molte parti del mondo (Brasile, Argentina, Usa, Giappone, Francia, Belgio, Spagna, Svizzera, Olanda, Inghilterra).
Non sono mancate le reazioni delle persone coinvolte. Eccone alcune a partire dal pm Raffaele Guariniello che in primo grado e in appello aveva ottenuto la condanna del magnate svizzero Stephan Schmidheiny : «La Cassazione non si è pronunciata per l’assoluzione Il reato evidentemente è stato commesso, ed è stato commesso con dolo. Abbiamo quindi spazio per proseguire il nostro procedimento, che abbiamo aperto mesi fa, in cui ipotizziamo l’omicidio». «Questo non è – ha detto inoltre il magistrato – il momento della delusione, ma della ripresa. Noi non demordiamo». «Ci lascia sgomenti l’idea che vengano considerati prescritti reati legati a fatti che ancora oggi continuano a mietere vittime», il commento di Legambiente. «Sorpresa e disappunto» sono le sensazioni del presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino.«Sono dispiaciuta e amareggiata, ma preferisco aspettare prima di aggiungere altro», ha affermato Concetta Palazzetti, sindaco di Casale Monferrato, uno dei centri più danneggiati dalla tragedia della Eternit.
Un portavoce del magnate svizzero invece ipotizza la «teoria del complotto» e chiarisce: «La decisione della Suprema Corte conferma che il Processo Eternit, nei precedenti gradi di giudizio, si è svolto in violazione dei principi del giusto processo. Schmidheiny si aspetta che ora lo Stato italiano lo protegga da ulteriori processi ingiustificati e che archivi tutti i procedimenti in corso».
Anche i politici hanno ovviamente detto la loro opinione a partire dal premier Renzi che ha espresso la volontà di cambiare la legge sulla prescrizione. Sarebbe stato molto meglio farlo prima considerato che è risaputo che la prescrizione non funzona.
Cerchiamo adesso di fare un breve excursus delle tappe giudiziarie di questa drammatica vicenda
2004: la procura della Repubblica di Torino apre un’inchiesta in seguito alla morte per mesotelioma di un ex operaio dell’Eternit, che aveva lavorato nello stabilimento di Cavagnolo (Torino). Le indagini, condotte dal pool composto dai pm Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli, si ampliano fino a coinvolgere migliaia di casi di malati e morti a causa delle patologie provocate dall’amianto. Non soltanto ex lavoratori, ma anche molti cittadini che hanno respirato al fibra mortale diffusa nell’ambiente estero agli stabilimenti. A oggi i morti in Italia a causa dell’amianto sono circa 1500 all’anno.
23 Luglio 2009: il giudice dell’udienza preliminare Cristina Palmesano rinvia a giudizio il barone belga Louis de Cartier e il magnate svizzero Stephan Schmidheiny per disastro doloso ambientale permanente causato dalla diffusione di amianto dentro e fuori dagli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato, Cavagnolo (Torino), Rubiera dell’Emilia e Bagnoli di Napoli.
9 dicembre 2009: inizia a Torino il processo Eternit, il più imponente processo che si sia mai celebrato per reati ambientali connessi a lavorazione industriale. Si costituiscono oltre seimila parti civili, tra enti, associazioni, sindacati e soprattutto cittadini (ammalati o famigliari di persone decedute per il cancro maligno “mesotelioma” o per asbestosi). Per la prima volta vengono incriminati i vertici padronali e non solo i massimi dirigenti come avvenuto in precedenti processi.
13 febbraio 2012: il tribunale di Torino, presieduto da Giuseppe Casalbore, condanna Louis de Cartier e Stephan Schmidheiny a 16 anni di reclusione.
14 febbraio 2013: inizia a Torino il processo d’Appello
3 giugno 2013: la Corte d’Appello, presieduta da Alberto Oggè, ribadisce il riconoscimento di responsabilità per il reato di disastro doloso e condanna Stephan Schmidheiny a 18 anni di reclusione. Per Louis de Cartier afferma di «non doversi procedere» perché l’imputato ultranovantenne è morto poche settimane prima.
19 ottobre 2014: inizia il processo in Cassazione nei confronti del solo Schmidheiny.
Fin qui i fatti ma qualche riflessione va pur fatta. Innanzitutto si può affermare che una sentenza di condanna non avrebbe di certo ridato le migliaia di morti d’amianto ai loro familiari e non avrebbe reso nemmeno giustizia, perché uno degli imputati è ormai morto prima del giudizio d’appello e quello ancora in vita è, da tempo, al sicuro in Svizzera; non avrebbe fatto giustizia neanche dal lato economico, perché per una serie di motivi burocratico-giuridici non sarebbe stato possibile far pervenire i risarcimenti dall’estero. Fatta questa premessa doverosa, va detto che un annullamento delle condanne per avvenuta prescrizione è forse la cosa peggiore che ci si potesse attendere. Per i familiari delle vittime – ma non solo per loro – ha il gusto amaro della beffa del colpo di spugna, dell’”avevamo scherzato”.
Probabilmente, anzi quasi certamente, da un punto di vista tecnico, l’annullamento delle condanne di primo e secondo grado è ineccepibile. Il pg, che pur rappresentando la pubblica accusa aveva chiesto proprio questo epilogo, dice che un giudice, «tra diritto e giustizia, deve scegliere il diritto». Sarà senz’altro così.
Bisogna considerare, però, non solo la tecnica del diritto, ma anche la storia. Ed è quella di una fabbrica che nasce, a Casale Monferrato, nel 1907, in piena sbornia positivista: la scienza che libererà l’uomo da tutte le sue paure. L’Eternit rientra in quel mito di progresso, il suo nome stesso rappresenta un surrogato della religione, Eternit come eterno perché questo nuovo eccezionale materiale sfiderà il vento e la grandine, l’usura e il tempo .
Ma la storia continua in un grande, tombale – nel senso letterale- silenzio che copre le prime perplessità. Già alla fine dell’Ottocento c’era chi segnalava che l’amianto era dannoso per la salute. Ma perché fermare il progresso smettendo di costruire tetti ondulati che costano poco e durano a lungo? Nessuna precauzione viene adottata: nell’archivio dell’Istituto Luce sono conservati i cinegiornali trasmessi prima dei film dei telefoni bianchi, si notano donne che nella fabbrica di Casale raccolgono senza alcuna protezione bracciate di scarti d’amianto, la parte più pericolosa. A metà del Novecento l’allarme si fa più preciso e i medici avvertono che l’amianto causa due malattie: l’asbetosi, che fa vivere male perché toglie il respiro; e il mesotelioma pleurico, un cancro che uccide in breve tempo.
E però l’Eternit di Casale Monferrato costituisce l’assicurazione sulla vita per l’intero territorio garantendo un buon stipendio. E’ utile anche per il dopolavoro: il sabato si può andare in fabbrica e con cento lire si portava via una carriolata di polvere bianca, da usare in vari modi. Casale e dintorni si riempiono di amianto. La sera gli operai tornano a casa con le loro tute imbiancate, le mogli le prendono ponendole in lavatrice. Quante persone respirano la polvere maledetta?
Corre l’anno 1973 quando un operaio, Nicola Pondrano, mette l’attenzione sulla spinosa questione. È stato assunto da poco e trova il coraggio di chiedere perchè ogni settimana ci sia un annuncio funebre. Cosa vuoi che sia, gli rispondono: è normale che gli operai muoiano giovani. Anche il sindacato gli suggerisce di star buono: in quei tempi, il bene più importante è l’occupazione, non la salute. Gli dicono sei matto, vuoi far chiudere la Eternit? Ma lui continua la sua battaglia rivolgendosi a medici e al sindaco: l’inchiesta finita due giorni fa in Corte d’assise inizia in quei giorni.
Questa è la storia fatta da migliaia di morti e non soltanto fra i lavoratori ma anche tra i familiari. Non si può dubitare che, almeno da una certa data, la pericolosità dell’amianto fosse nota. La giustizia umana è imperfetta, e già era non era corretto che fossero processati solo gli ultimi due proprietari. Adesso ecco anche la prescrizione per l’unico rimasto a rispondere di quei morti.
C’è, per concludere, il dovere di rispettare le sentenze ma sussiste la libertà di criticarle. O perlomeno di credere che ci sia qualcosa che non torna in uno Stato che dà il titolo di commendatore a Romana Blasotti Pavesi – presidente dell’associazione vittime dell’amianto che ha perso marito, sorella, figlia e due nipoti – e poi afferma che il diritto deve prevalere sulla giustizia.