Qual è la reale portata persuasiva dei messaggi pubblicitari? Verità o ipocrisie (di mercato)?
Settembre 2013. “Non faremo pubblicità con omosessuali, perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca”. Erano queste le parole di Guido Barilla ai microfoni della Zanzara, in merito alla linea editoriale seguita dagli spot della sua azienda.
Tra scuse, “mea culpa”, dietrofront e nuove campagne pubblicitarie, il polverone suscitato dalla Barilla non ha fatto per nulla bene alla “pasta degli italiani”.
La pubblicità, la tigre domestica della società del benessere, è uno degli strumenti assertivi e persuasivi d’eccellenza: la corrosione dei più alti valori della tradizione diventa un problema di coerenza. La pubblicità onesta e veritiera è un miraggio: unisce realtà e menzogna, porta l’uomo in uno stato confusionale, gli impedisce di comprendere la distinzione fra bisogni – e, quindi, beni per soddisfarli – reali e fittizi, che assumono la stessa accezione e priorità dei primi. “La persuasione è buona se lo scopo è onesto”, diceva Dicther.
Ma chi stabilirà l’onestà di uno scopo? La persuasione, intesa come pressione sulla psiche, rimane. Appare illecita, indimostrabile, instabile. Cosa può fare l’uomo per “rimanere sempre dalla parte della ragione e non del torto”? Può per caso eliminare tutti quei fattori irrazionali e pseudo-ingannatori che rendono i prodotti più appetibili e desiderabili di altri? No. Facendo così, il pubblicitario non farebbe altro che portare tutti i beni di uno stesso tipo sulla medesima linea di importanza e valenza. Niente e nessuno emergerebbe. E l’uomo non potrebbe scegliere più.
Prodotti che vengono descritti meglio di quanto non siano in realtà. Prodotti che appaiono più belli, più utili, più funzionali. Migliori, perfetti, soluzione di tutti i problemi e garanzia di successo. Che siano omogeneizzati, pneumatici, vestiti, smalti o detersivi, il problema morale della pubblicità resta.
Il limite sembra essere poco definito. Qual è la linea di confine tra verità e ipocrisia, quando un valore, una situazione, un tema – delicato o meno – diventa strumento di guadagno, di potere, mezzo incoerente e vile per uno scopo ancor più incoerente e vile?
La Findus il “sapore della vita” lo vive così, con un coming out tutto in famiglia, tra risotti, forno a microonde e tavola ben imbandita.
IKEA celebra così il suo gay friendly: famiglie tutte uguali, bambini, anziani, giovani adulti alle prese con il trasloco, donne dai capelli bianchi con una nuova vita davanti e – si spera, per il bene dell’economia made in Svezia – una libreria tutta da montare, tra istruzioni, viti e scaffali storti (ma perché non l’ho comprata già montata?!), coppie omosessuali che uniscono letti singoli per vivere l’amore e la passione di un matrimoniale.
Ma quanta verità c’è dietro? Findus, IKEA, e come loro tantissime altre aziende sul mercato internazionale, combattono davvero per la volgarizzazione dei nuovi status sociali, o c’è, a malincuore, solo una strategia di mercato?
http://www.youtube.com/watch?v=m4Z8cidOYMU
Nella lotta a favore dell’omosessualità si è schierata anche Algida, con il suo bellissimo e commovente spot intitolato “40 – Love”: lezione di intelligenza ed eleganza, oltre al buon gusto e alla delicatezza con cui ha trattato questo tema.
Lo spot fa parte dell’ultima campagna pubblicitaria del Cornetto Algida intitolata “Cupidity Love Stories”: storie d’amore, cortometraggi per il web, per il pubblico che corre, va di fretta, in una società in cui si deve avere paura, purtroppo, della tigre domestica. Si narra dell’amore tra due ragazze, una tennista e una giudice di linea, incontratesi, per caso e per volontà del destino, in un’occasione al limite dell’assurdo. Nasce tutto così, all’improvviso, senza nessun segnale premonitore, indizio, pregiudizio.
Quanta realtà c’è dietro? Verità o ipocrisie (di mercato)?