Morire in carcere. Morire di carcere. Lo sapevate che nelle prigioni italiane si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera? L’opinione pubblica molte volte – per via di una mancata e/o scarsa informazione a riguardo – non è a conoscenza delle reali condizioni dei detenuti nel carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. Il suicidio, in generale, consiste in un grave problema di salute per la comunità intera. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità viene commesso un tentativo di suicidio circa ogni tre secondi, ed un suicidio completato ogni minuto. Il suicidio, in proporzione miete più vittime di un conflitto armato o di un disastro aereo. Nelle carceri poi, si registrano numeri maggiori sempre in aumento, rispetto a quelli della comunità circostante. Questo (anche) perché i soggetti detenuti sono gruppi molto vulnerabili, e tradizionalmente tra le persone più a rischio, cioè giovani maschi, persone con disturbi mentali, persone interdette, socialmente isolate, con problemi di abuso di sostanze, e con storie di precedenti comportamenti suicidari.

Il sovraffollamento delle carceri non si arresta, calano le forze di polizia penitenziaria, e questa bomba a orologeria esplode tra i detenuti sotto forma di suicidio. Eccetto per una leggera flessione registrata nel 2013, quando i detenuti che si suicidarono furono il 30%, i dati sono davvero allarmanti. Nelle carceri italiane, infatti, si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera. Nel corso di questi ultimi dodici anni sono avvenuti complessivamente 692 suicidi, ovvero più di un terzo di tutti i decessi avvenuti in carcere. Ma non è tutto: gli individui che subiscono il regime di detenzione, per un periodo di media-lunga durata, presentano frequenti pensieri e comportamenti autolesionisti durante tutto il corso della loro vita. Nel 2012 i detenuti hanno raggiunto i 7.317 atti di autolesionismo e 1.308 tentativi di suicidio. Le morti sono state complessivamente 154, di cui 60 per suicidio, con una più elevata frequenza tra le persone più giovani.

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Ma quando, nel corso della storia, si comincia ad avvertire l’esigenza di indagare sulle morti nelle carceri? Il tema delle morti nell’ambiente carcerario ha iniziato a destare interesse per la prima volta intorno alla metà del 1900, quando lo studioso Anderson affermò che il problema dei suicidi in prigione, ma anche nelle workhouses (case di lavoro) e negli altri istituti di custodia, era stato spesso occasione di accese controversie tra svariati giudici. Questo perché, secondo i rapporti ufficiali, successivamente analizzati anche da Forbes, gli episodi di morte in carcere avevano un rilievo assai limitato, e venivano trattati spesso in maniera sbrigativa e di sicuro senza una visione critica e problematica. Ad oggi le cose sono cambiate relativamente poco. Gli studi sul suicidio in carcere prendono per lo più due strade principali: quelle medico-psicologico e quelle di indirizzo sociologico; ma la disinformazione a riguardo è ancora elevatissima. Nonostante i numeri siano in costante aumento rispetto al secolo scorso.

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Per porre fine, o almeno un parziale rimedio a questo problema, in alcuni penitenziari sono stati avviati programmi di prevenzione del suicidio, inoltre, in alcuni Paesi sono state anche stabilite normative nazionali e linee guida. Ovviamente i dettagli del programma di prevenzione hanno molte variabili, tra cui le risorse locali e le necessità dei detenuti, tuttavia, sono state individuate delle linee guida basi delle strategie più efficaci in questo campo. Queste sono: elaborare un profilo suicidario, cioè informazioni in grado di identificare situazioni e/o gruppi ad alto rischio, analizzare i fattori di pericolo più comuni, siano essi situazionali o psicosociali, e tenere aggiornati i dati. E anche addestrare il personale carcerario e tenere i soggetti a rischio costantemente in osservazione anche dopo anni dall’ingresso in prigione.
Ma la strada per diminuire queste morti è ancora lunga, e tutta in salita.

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