I cambiamenti sociali degli ultimi 20 anni hanno rivoluzionato i rapporti umani tra le persone, sia a livello personale che lavorativo. Con l’avvento della globalizzazione gli equilibri economici del mondo hanno subito mutamenti epici, nel corso dei quali l’Europa non è riuscita a tenere il passo rispetto agli altri continenti. Nel 2013 la Commissione Europea ha realizzato un rapporto nel quale è emerso che molti stati europei faticano a seguire i cambiamenti del resto del mondo: tra questi figura in maniera impietosa l’Italia, da anni vergognosamente ferma a un livello industriale obsoleto e a bassa intensità tecnologica. Secondo il vecchio rapporto EU gli scienziati italiani, nonostante i continui tagli alla ricerca, producono molte idee innovative e avveniristiche, dimostrandosi di pari grado rispetto ai colleghi britannici, olandesi e tedeschi. Il problema reale è però dato dal fatto che gli esiti delle loro sperimentazioni non sempre raggiungono in maniera fruttuosa le aziende, sia perché mancano dei fondi ad hoc in grado di finanziare la stessa ricerca, sia perché il processo stesso di trasferimento tecnologico è quasi inesistente. Quest’ultimo ha una durata di circa 5/7 anni nei quali è previsto in primo luogo il processo di brevettazione delle idee da parte degli stessi ricercatori, e poi uno sviluppo dei prototipi da inviare alle aziende selezionate le quali, se interessate, prendono in licenza il brevetto per dare luogo alla produzione.
All’estero le cose si svolgono in maniera nettamente diversa: tutto il percorso che precede la messa in commercio dell’oggetto di brevetto viene filtrato dalle università. Nel nostro paese queste ultime hanno modalità di lavoro antiche e superate, sia per quanto riguarda la formazione degli studenti che per quel che concerne le invenzioni prodotte, di fronte alle quali rimango inerti. All’estero il ricercatore si occupa solo di un’unica cosa: la ricerca. Tutto il resto non è di sua competenza. La commercializzazione è un aspetto che ricade solo ed esclusivamente sull’ateneo di provenienza, nel quale sono presenti figure specializzate che coordinano il processo sia a livello locale che nazionale. Il ricercatore sa bene che, una volta raggiunto il proprio risultato, può andare a disturbare un ufficio preposto con gli esiti delle sue ricerche e che la sua idea verrà in seguito brevettata e venduta alle aziende interessate da figure create appositamente. Inoltre i proventi di siffatta sperimentazione andranno ad arricchire sia le sue tasche che quelle dell’ateneo il quale, in questo modo, disporrà di ulteriori fondi da potere reinvestire in nuove attività di ricerca e sperimentazione. Questo sistema spinge in avanti sia i ricercatori che le stesse università, le quali non ricevono altro che benefici.
L’università di Oxford può contare sul ‘proof of concepts’ ovvero su una serie di fondi che vanno a sostenere l’attività dei ricercatori e che vengono utilizzati per la produzione di prototipi. Si tratta di cifre che si aggirano intorno ai 60 mila euro a progetto e che costituiscono una linfa vitale per il funzionamento del settore. In Italia non sono previsti depositi di questo tipo, così come non v’è alcuna rete in grado di mettere in collegamento i ricercatori con le aziende di settore. Succede quindi che il singolo ricercatore, già scoraggiato dalla penuria di fondi, si ritrovi a dovere andare in giro personalmente alla ricerca di investitori disposti a finanziare le proprie scoperte. Quando non è così, invece, gli stessi scienziati non possono fare altro che attendere che qualche azienda crei con loro un contatto, rischiando, naturalmente, di rimanere con le mani in mano e di buttare via i risultati delle proprie fatiche. Fino a qualche tempo fa era presente un’agenzia governativa per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione, che fu poi soppressa dal governo Monti.
La prima via verso il risanamento di un sistema così vacuo e fallimentare sarebbe un intervento sulla struttura delle università, da sempre entità separate dal resto del mondo e assolutamente distanti dai modelli stranieri. Francesco Profumo, ex presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e attualmente presidente della società energetica Iren ha dichiarato: “La nostra non è una storia particolarmente virtuosa quanto a investimenti e ricerca. I nostri ricercatori, dal punto di vista scientifico, sono bravi, questo lo si vede perché sono apprezzati in tutto il mondo, e non crediate che sia per via della simpatia degli italiani: le grandi aziende guardano solo ai risultati che si riescono a produrre. Ci manca la capacità di far ricadere sulla società gli effetti dei progetti e delle ricerche condotte, che spesso rimangono nel cassetto. Inoltre, non siamo nemmeno bravi a farci pubblicità: non a caso, se pensiamo alla lampadina, a tutti noi viene in mente Edison, ma in realtà è stato un italiano a rendere possibile la sua realizzazione.” Iren è impegnata in prima linea nel finanziamento di progetti provenienti dalle università; aziende come questa si pongono in un’ottica di apertura verso l’innovazione in tre modi: acquistando i risultati delle ricerche, facendosi canale di diffusione delle stesse e acquistando le start-up più interessanti, dando così un contributo allo sviluppo del territorio.
Quello che devono fare le aziende grandi e con molti mezzi come Iren, è un matching tra domanda e offerta di innovazione. Solo seguendo tale falsariga l’Italia cesserà di essere il fanalino di coda d’Europa.
[Fonte foto cover: www.udupalermo.it]