Modificare la Costituzione della Repubblica Italiana non è qualcosa di così semplice o scontato: la legge stessa prevede un iter parlamentare complesso, la possibilità di appellarsi ad un referendum e gestisce minuziosamente ogni delicato passo che vada ad intaccarne le pagine. E, infatti, le riforme di una carta costituzionale promulgata il lontano 22 Dicembre del 1947 sono state talmente poche da poterle ricordare facilmente, e non sempre prive di polemiche (su tutte la travagliata riforma del titolo V tutt’ora al centro di numerose critiche trasversali). Così quando Matteo Renzi, nel chiedere la fiducia per il suo Esecutivo, si è recato a Palazzo Madama augurandosi davanti l’Aula di essere l’ultimo Presidente del Consiglio a doverlo fare, non sono stati pochi i cori di dissenso. La Costituzione è un caposaldo imprescindibile, su questo pochi dubbi, vero e proprio capolavoro dei padri costituenti, capaci di sintetizzare nelle sue righe l’essenza di un Paese distrutto da guerra e povertà. E proprio il ripudio della guerra, il diritto al lavoro e la centralità assoluta delle libertà individuali sono principi più che mai attuali e per questo da difendere strenuamente.
Ciò non toglie che quegli stessi padri costituenti, figli di un clima politico del tutto diverso e di necessità in parte distanti da quelle odierne, non possano avere costruito un impianto costituzionale che oggi più che mai debba essere rivisto e ridiscusso. Magari in altri contesti, con una legge elettorale migliore, con un assetto partitico più solido, l’idea di bicameralismo perfetto potrebbe ancora stare in piedi. Ma in una Seconda Repubblica nella quale è difficile garantire la maggioranza in entrambe le Aule parlamentari, con Partiti e partitini che vanno ad alimentare alleanze mutevoli nel corso di una stessa legislatura, diventa simbolo di una pesantezza e di una lentezza burocratica che impedisce da tempo riforme quanto mai necessarie. Così, in un clima crescente di antipolitica e di forte sfiducia, appare quasi incomprensibile la strenua difesa di un Senato che così com’è composto, è spesso la causa dei rallentamenti nell’iter legislativo.

I cardini del ddl Boschi
Il 20 Gennaio scorso intanto è passata la fiducia a Palazzo Madama per il ddl Boschi, momento simbolico, intriso di significati importanti, perchè di fatto vedeva i Senatori votare l’abolizione della loro stessa Camera così come la si conosce. Nel piano del Governo Renzi l’idea è quella di permettere in una prima fase una più facile governabilità per gli Esecutivi, sgravati dalle difficoltà di raccogliere consensi in Senato dove le maggioranze da sempre sono più risicate e volubili. A quest’ultimo, composto da 95 politici eletti dai Consigli Regionali, il compito di legiferare su riforme e leggi costituzionali ma non su quelle ordinarie, con la Camera dei Deputati che può respingere eventuali richieste di modifica. Spariscono anche i “grandi elettori” e cambia il quorum richiesto per l’elezione del Presidente della Repubblica. Addio al concetto di Senatori a vita, con i sei attuali che concluderanno un mandato di 7 anni diventando di fatto gli ultimi della categoria. Si va a modificare anche il tanto discusso Titolo V, con materie come l’energia, le infrastrutture strategiche e il sistema della protezione civile, che tornano di competenza dello Stato.
Cancellate anche le Province, se ne discute da tanto, ma soltanto eliminandole dalla Costituzione di fatto si potrà abrogarle definitivamente. Cambiano anche i numeri necessari per un referendum; se infatti i promotori riusciranno a raccogliere 800 mila firme invece delle 500 mila canoniche, il quorum si abbasserà tenendo conto degli effettivi votanti dell’ultima tornata elettorale. Referendum che non saranno più soltanto abrogativi, ma che permetteranno anche di coinvolgere direttamente una larga parte della popolazione nei processi legislativi più complessi.

Le critiche maggiori
Quali sono allora le fragilità che ruotano attorno al ddl Boschi, e su quali concetti si muovono le critiche più aspre? I più grandi detrattori si concentrano sul Senato, su quella che è vista come una sorta di “umiliazione” del Parlamento” privato di una funzione rappresentativa. C’è chi esclude categoricamente di poter accettare anche solo in parte il disegno di legge, e chi invece, minoranza Pd in primis, impone l’elezione dei componenti della nuova Camera.
Ma il problema non è soltanto ideologico, ma nel più crudo pragmatismo non è difficile immaginare le ripercussioni che un Senato non elettivo potrebbe avere su già fragili alleanze politiche. Spesso fattore negato, mai del tutto ammesso, la promessa di un “posto” nella legislatura successiva è diventata componente fondamentale nello spingere parlamentari a cambiare “casacca”. Col diminuire del numero di posti in Parlamento, quanti politici dovrebbero fare definitivamente le valige rinunciando ai benefici del loro status attuale? Per alcuni il sacrificio è comprensibile in virtù di una riforma necessaria, per altri molto più difficile da digerire.

Il referendum
Davanti ai tanti dubbi sorti in questi mesi la soluzione più giusta è quella di ricorrere ad un referendum popolare. Una volta approvata la legge, presumibilmente in Primavera, un gruppo di Parlamentari o un minimo di cinque consigli regionali, potranno chiedere di ricorrere a quest’ultima via prima che il Presidente della Repubblica firmi. Una scelta che farà lo stesso Pd, per legittimare in pieno la validità del ddl, come assicura Renzi.
Le opposizioni obiettano sul fatto che si rischia di trasformare il referendum in un plebiscito pro Governo sotto la bandiera dell’abolizione del Senato e di alcuni privilegi dei parlamentari. Ma anche fosse, non farebbe altro che confermare quanto i tempi per una riforma costituzionale di questo tipo fossero ormai maturi ponendosi come imprescindibili nel nuovo impianto politico.