Abbandoniamo i moralismi da falsi intellettuali e il codice etico, lasciamoci alle spalle l’era prandelliana e proviamo a pensare di cosa avrebbe bisogno questa vecchia scassata Italia del calcio.

Scrivo dalla mia Jesi, la città europea dello sport 2014, fucina di campioni, uno su tutti Roberto Mancini accostato di recente alla panchina della Nazionale.
Non so se sia l’allenatore giusto per risollevare le sorti degli Azzurri; so soltanto che l’Italia, vista l’imbarazzante verve mostrata a Brasile 2014, avrebbe bisogno di quel Mancini che in pochi conoscono, di quel ragazzino sanguigno che giocava nell’Aurora Jesi.

Anni ’70, parrocchia di San Sebastiano (quartiere Prato, tra i più popolari di Jesi), un cancello arrugginito, un campetto di cemento e più in là un martoriato campo da calcio per metà d’erba e metà terra: qui, dove tutto è cambiato e tutto è rimasto uguale, Roberto ha iniziato a tirare calci al pallone.
Chiacchierando con i dirigenti dell’Aurora d’allora scopriamo chi era veramente Roberto Mancini, con quale determinazione, passione e voglia di vincere viveva il calcio.
C’è chi lo ricorda a metà anni ’70 a San Severino Marche, in un terreno infame da battaglie vere. Ai locali avevano annullato un gol regolare e il pubblico tirava sassi in campo. Roberto si impaurì e corse quasi piangendo sotto la tettoia della panchina. Chi racconta, giura che è stata l’unica volta che Mancini ha avuto timore di qualcosa su un campo da calcio.
C’è chi se lo ricorda il giorno della Comunione, quando uscì dalla chiesa, corse a casa a prendere la borsa e andò al campo per giocare il secondo tempo.
Un suo vecchio allenatore racconta di quando debuttò con gli Allievi ad Ascoli. Aveva tre anni in meno degli altri, lui tredici e i suoi compagni sedici, ma era il più forte di tutti. Un talento immenso. Segnò un gol ma glielo annullarono. Negli spogliatoi pianse di rabbia e nessuno riuscì a consolarlo.
Un altro dirigente parla di quella volta che un tacchetto della scarpa gli aveva rosicchiato il dito (le scarpe d’allora avevano delle piccole viti che tenevano attaccati i tacchetti alla suola). Nonostante il calzino strappato e il piede sanguinante, non ne volle sapere di uscire dal campo.
Un altro aneddoto risale al 1977, partita sentitissima contro una squadra d’Ancona. Roberto era il più piccolo in campo e il suo marcatore per intimorirlo lo scalciava e gli sputava a palla lontana. Lui prima rispose firmando un gran gol poi, stanco dei trattamenti ricevuti, reagì in malo modo, dando un pugno in pieno volto al suo diretto avversario. Successe il finimondo. Nessuno si accorse cos’era accaduto. Negli spogliatoi confessò tutto. Peccati di gioventù. E di coraggio.

A quest’Italia senza più radici, intrappolata tra falsi campioni e i tweet, tra filosofie di gioco nate già morte e tatuaggi alla moda, manca ragazzini come Bobby Gol.
Gli Azzurri hanno bisogno di giovani sfrontati che macinano chilometri, senza piagnistei per le botte prese, che si rialzano dopo un contrasto perso, che corrono perché giocare a calcio è un piacere.
Il Mancio è arrivato dov’è arrivato perché oltre al talento, ha sempre messo in campo quella fame di vittoria che aveva fin dai tempi dell’Aurora.
Se solo Roberto Mancini, cresciuto al fianco di maestri di vita come Burgnich e Boskov, potesse trasmettere, non tanto il suo sapere calcistico, quanto il suo vecchio modo di vivere il calcio, per la Nazionale sarebbe un primo passo in avanti.
Oggi all’Italia manca questo. Mancano quelli che corrono a giocare il secondo tempo dopo la Comunione, quelli che se ne fregano delle ferite, quelli che si disperano piangendo perché gli hanno annullato un gol.
Il calcio è molto più semplice di quello che ci vogliono far credere. Test atletici, alimentazione specifica, preparazioni personalizzate e addirittura gli psicologi incidono molto meno di quanto immaginiamo.
Alla fine, a parità di valori in campo, vincono sempre gli stessi: quelli che hanno più fame, quelli come il Mancio, quelli che giocare a Wembley o nel quartiere Prato non fa differenza.
Qualcuno dimostri il contrario.