C’è un’espressione, piuttosto eloquente, che anche grazie a una canzone del 1983, una pietra miliare nel pluridecennale cammino degli U2, è entrata nell’uso globalmente comune per indicare un fatto di sangue – avvenuto di domenica – di risonanza mondiale: Bloody Sunday. Ce ne sono state di domeniche ad alto tasso di liquido rosso nella storia, più o meno recente: da quella più lontana nel tempo, a Londra (1887), contro la ‘Coercizione in Irlanda’ a quella del 1972 a Derry (qui arrivano Bono & co.). Ce n’è però una che si è rivelata decisiva per il corso della storia del paese protagonista dell’epoca moderna, gli USA: è quella del 7 marzo 1965, accaduta a Selma (Alabama). I picchiatori: la polizia del posto. I picchiati: oltre 600 individui di colore, in marcia verso la conquista dei diritti civili, tali da renderli, una volta per tutte, cittadini. A capo del gruppo, un uomo: Martin Luther King Jr.. Una straordinaria dimostrazione di forza raccontata in Selma – La strada per la libertà, opera candidata all’Oscar come miglior film, firmata dall’afroamericana Ava DuVernay.
Le marce da Selma a Montgomery, dunque. Un capitolo necessario per portare agli occhi di tutti gli Stati Uniti – a metà anni ’60 – una situazione ormai divenuta anacronistica e insostenibile. La popolazione di colore, a quasi cento anni dall’abolizione della schiavitù, si trova comunque ai margini della società: scopre quindi in Martin Luther King (interpretato dal britannico David Oyelowo) un condottiero che con la nonviolenza di gandhiana memoria la porterà ad ottenere, a costo anche della propria vita, il diritto di voto e la fine sostanziale dell’apartheid. Il compito di King non sarà facile: a contrastare il suo progetto c’è un apparato statale non accondiscendente, impersonato dal Presidente, Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson) e da quella parte della popolazione rimasta ancora indietro. King capisce che bisogna portare dal proprio lato questa porzione di società: per farlo, organizza una serie di marce, che prendono il via da Selma.
Curioso che Selma – La strada per la libertà arrivi sul grande schermo a pochi mesi di distanza da un altro film, Pride, in cui una marcia rappresenta il simbolo di un cammino verso il riscatto non solo di una parte, ma di un’intera nazione. Così come nell’episodio raccontato dal film di Matthew Warchus, con minatori e omosessuali in sfilata fianco a fianco al Gay Pride londinese del 1985, l’opera della DuVernay attraversa anni cruciali per l’emancipazione sociale di tutti gli Stati Uniti. Con l’avanzare dei minuti, non crescono solo il potere carismatico di King o la dialettica strategica e politica tra lui e l’establishment a stelle e strisce di quegli anni, cresce un’intera società di uomini.
E qui partecipa anche uno degli elementi più riusciti del film, il ritmo. Perchè se sono lapalissiane – e francamente inevitabili – le similitudini con The Butler (grazie tante, anche Full Metal Jacket somgilia ad Apocalypse Now), il taglio scelto dalla DuVernay si mantiene perfettamente in equilibrio tra dramma intimista e documento storico. Il travaglio affettivo e interiore di King si alterna a episodi storici caratterizzati da apprezzabile veridicità.
Positivo il contributo dell’intero cast, guidato da un più che apprezzabile Oyelowo, che alla soglia dei 40 anni si disimpegna bene nel primo ruolo da protagonista in un film dal respiro internazionale, dopo le partecipazioni a The Help e lo stesso The Butler (lo rivedremo anche in A most violent year). Sorprende anche Oprah, ma a bucare lo schermo sono Tim Roth (bentornato!) e Tom Wilkinson, un’icona – più che un caratterista – del cinema british.
Ah, ci sarebbe un altro valido motivo, oltre a quelli elencati, per andare a vedere (e sentire) Selma. Basta un nome: John Legend. La sua Glory è in odore di Oscar.
[Ph. Credits: Atsushi Nishijima/AP]