“Dio è morto, Marx è morto, e io mi sento poco bene”
Se il cinema, nelle sue infinite varianti, avesse una personificazione, probabilmente andrebbe a scomodare proprio uno dei suoi figli prediletti come Woody Allen per descrivere il suo attuale momento storico.
No, non è il principio di un saggio disfattista sul grande schermo di oggi e di come era bella la Hollywood degli anni d’oro: è più una riflessione su come, nel lustro che stiamo attraversando (negli anni ’10 del 2000, per intenderci), ci troviamo al cospetto di un’age d’or delle serie tv. Che stanno, inesorabilmente, raccogliendo la corona che fino a ieri era saldamente sulla testa del mostro a grande schermo.
Al timone delle responsabilità di questo lento e graduale moto che somiglia ad un’inversione dei poli, tanto per cambiare, ci sono i giovani. Milioni di under 30 lasciano il proprio puntuale zampino sui social, e sulla rete in generale: se andate a guardare quotidianamente i topic trend di Twitter, ci troverete di certo un richiamo all’episodio finale o alla season premiere di una serie sulle cresta dell’onda. In contrapposizione, invece, alla minoranza cinematografica rappresentata dal rilascio di un trailer di Hunger Games o di uno sporadico passaggio televisivo di un film di Tarantino.
Non è solo questione di idee se le serie tv sono arrivate a tal punto, non può esserlo. Perchè senza i mezzi che le varie HBO, Showtime o la recente Netflix, mettono sul piatto, non staremmo qui a parlare di inversione di poli. Una vastità di mezzi – tecnici, artistici e umani – che tuttavia costituisce il prodotto di un circolo virtuoso, dettato dal portare avanti progetti che fanno della qualità l’unico requisito fondamentale, persino se applicata ai teen-drama o ai musical (Glee).
Consideriamo anche il caso italiano: nella patria degli sceneggiati e delle cosiddette mini-fiction, in cui hanno trovato terreno fertile nell’ultimo quarto di secolo i legal/police drama, prodotti comunque caratterizzati da serialità forte, ci sono gli esempi abbastanza freschi di due opere presentate dalla stessa produzione, le serie di Romanzo Criminale e Gomorra. Ritenuti da molti addetti ai lavori superiori ai lungometraggi dai quali prendono le mosse, i due serial firmati da Sky, Cattleya e Fandango sfidano il grande schermo sul suo stesso terreno, introducendo alle masse il concetto di “cinema seriale“.
É cinema seriale anche House of Cards, lo sono pure due serie antologiche come True Detective e Fargo.
Lo sono a modo loro anche le varie The Affair, How to get away with murder, Orange is the new black e The Walking dead. É una questione di fotografia, di sceneggiatura, di intreccio a orologeria ma soprattutto di approccio estremamente minuzioso alla storia, che pretende dallo spettatore non solo la presenza più o meno costante davanti allo schermo ma il massimo dell’attenzione. É un pò insomma come se il cinema, leader delle arti visive negli ultimi cent’anni, stia tirando il fiato, sdraiandosi sulla superficie dilatante del piccolo schermo, dove i tempi consentono di coniugare la profondità delle storie e degli elementi raccontati alla qualità della tecnica del racconto.
Il cinema è malato, allora? Una diagnosi a dir poco precoce, in realtà.
La produzione globale filmica non sarà ai livelli di quarant’anni fa (quale aspetto artistico lo è, d’altronde?) ma più che di crisi del settore o smantellamento dell’industria, la sensazione è che l’espansione del piccolo schermo possa non tanto portare all’eclissi del fratello maggiore, quanto recare con sè un rapporto di collaborazione che può essere proficuo – più che in passato – per entrambe le parti.
Adesso scusate, sta per iniziare la replica di True Detective di ieri sera.
[Ph. Credits: Sky Atlantic/AMC]