Per proporre la riforma del lavoro, il Governo Renzi ci ha messo un anno. Considerando la priorità che essa rappresenta oggi e considerando anche il largo seguito di maggioranza parlamentare da sempre sbandierato come punto di forza per l’approvazione di tutte le riforme (al momento solo) annunciate, forse è un po’ troppo. Troppo per chi ha fatto della rottamazione e del decisionismo pret-a- porter i propri cavalli di battaglia.
Ma chi credeva che bastasse un po’ di gioventù da contrapporre all’immobilismo dei suoi predecessori, che fossero politici di lungo corso o professori, si sbagliava di grosso. Renzi in primis.
Il nostro rimane un Paese impantanato dagli interessi delle Associazioni di Categoria da un lato e da una forza sindacale che vivaddio spesso serve a contenere incivili atti di forza alla Marchionne maniera, ma spesso è anche motivo di stasi e di puro mantenimento di uno status quo non più attuale. Per non dimenticare che 2/3 del nostro Paese non sono caratterizzati da aziende digitali con i biliardini nella hall, ma da cupe e oliose catene di montaggio.
Facebook contro Tempi Moderni. Zuckerberg contro Charlot.
I cambiamenti che la riforma del lavoro propone, alla fine dei giochi di certo semplificheranno notevolmente la qualità amministrativa del nostro attuale sistema (ad oggi si contano oltre 40 tipologie di contratti a favore di una forma unica detta “a tutele crescenti” dove i neo assunti saranno carne da macello e i profili più senior possono essere ridimensionati al fine del mantenimento del posto di lavoro. Come dire: sarà la precarietà il vero bollino di riconoscimento del Jobs Act) e per certi versi tende a eliminare garanzie acquisite soprattutto nell’area della Pubblica Amministrazione (sacrosanta eliminazione delle figure “dirigenziali” dalle nomine oscure), nonché di strumenti spesso abusati come la cassa integrazione per le aziende che cessano le attività.
Fra le proposte davvero innovative di questa legge c’è finalmente un articolo che riguarda i fondi formazione, oggi utilizzati in maniera creativa da alcune aziende con la complicità di Confindustria e delle varie società di formazione autorizzate ad approvare (e quindi ad “assorbire” parte delle quote finanziate) piani di formazione che spesso non formano proprio nessuno.
Purtroppo non è previsto che quegli Enti spariscano, così come la creazione di un’Agenzia Speciale per l’Occupazione ci fa ripiombare indietro di 20 anni nel tunnel degli uffici di Collocamento che non hanno di fatto mai ricollocato nessuno. Per quanto si possa parlar male delle Agenzie Interinali, dal 1999 ad oggi è solo grazie ad esse se in Italia si è movimentato il quantitativo di assunzioni in maniera professionale, bypassando la cultura degli amici degli amici
Alla fine, il vero ganglo della situazione, pilastro sostanziale e grande giustificazione imprenditoriale alla difficoltà di approvare nuove assunzioni, unica richiesta in 30 anni di cronaca imprenditoriale all’indirizzo del Governo, quello cioè rappresentato dal costo del lavoro, viene finalmente accolto sottoforma di taglio dell’IRAP. Qualcuno però nutre grossi dubbi sulla fattibilità (più che sulla capacità) di questa azione. La coperta, come si suol dire è corta.
Su tutti giornali nazionali più rappresentativi, ieri è comparsa la nuova campagna di employer branding a firma McDonald’s. Non staremo certamente qui a discutere sulla qualità del lavoro offerta; non c’è alcun dubbio che il lavoro da Mac è un’esperienza passeggera, ultimamente appannaggio di stranieri che cercano un’opportunità per pagarsi una breve permanenza nel nostro Paese o di sopravvivenza per etnie meno snob della nostra in quanto a concezione del lavoro.
Per molti difatti, un lavoro è un lavoro e basta.
Il tema della campagna è “Il nostro Jobs Act”. In poche parole McDonalds aprirà 500 negozi nuovi nel corso del 2015, in Italia. Che ci sia o non ci sia il Jobs Act. La mia impressione, è che al di là di qualsiasi bella legge impacchettata, il Governo da una parte deve capire che non si sviluppa un sistema di impresa strozzando gli imprenditori con tasse sempre diverse e i commercianti con regole fatte solo per arricchire alcuni consulenti (leggete lo splendido “volevo solo vendere la pizza“) o per fare cassa con multe incomprensibili.
Così come gli imprenditori non possono farci credere che ad oggi non siano stati messi nella condizione di assumere a causa dell’Articolo 18, una battaglia che è andata avanti per anni.
Il livello di ricerca, sviluppo e innovazione sia produttiva che di cultura manageriale nel nostro Paese è ferma ad Olivetti.
E, Jobs Act o non Jobs Act, non possono essere questi i nostri ultimi riferimenti.