Anche chi non ne conosce l’esatta definizione sicuramente sta usufruendo dei servizi da essa offerti. Dalla condivisione di un appartamento, alla richiesta di un passaggio con la condivisione delle spese, passando per il baratto di abiti e lo scambio di altri beni e servizi. In due parole, sharing economy: nuovi modelli di business, tanto innovativi quanto poco regolamentati.

Il Time l’ha inserita tra le 10 idee che cambieranno il mondo. Un giro d’affari che nel giro di dieci anni potrebbe raggiungere i 335 miliardi. In tanti hanno già sfruttato i servizi offerti dalla sharing economy, soprattutto nel settore dei trasporti (car sharing e car pooling), nati in California e diffusi ormai in tutto il mondo. Il punto di forza di questi servizi sta nella condivisione, nel riuso e in un consumo più responsabile e consapevole: dividendo i costi di un viaggio, offrendo una camera di casa a un turista si risparmia, ma soprattutto si sperimenta un modo alternativo di consumare, che può includere la conoscenza di nuove persone. Il paradigma della sharing economy è, però, da ricercarsi negli equilibri economici: rivoluzionerà davvero alcuni settori, soprattutto nel campo dei servizi, oppure sarà inglobato all’interno di regole chiare che ne affievoliranno la carica innovativa e sovversiva? Spesso dietro questa carica si nasconde l’ascesa di nuovi colossi, Uber e Airbnb solo per citarne due, che a una crescita esponenziale contrappongono un inversione di tendenza rispetto ai genuini principi (essere intermediari tra domanda e offerta) con cui si erano inizialmente imposti sulla scena economica.

Da una analisi del Wall Street Journal ne esce un quadro impietoso: la sharing economy si presenta alla stregua del nuovo feudalesimo con moderni servi della gleba, salari bassi e diritti del lavoratore che di fatto non esistono. Un miscuglio di individui indipendenti raccolti sotto forma di startup, tante originarie della Silicon Valley, che danno vita alla propria attività con il semplice intento di condividere cose, come auto, case, ecc. Sempre più spesso, però, non si tiene conto che molte delle società sotto l’ombrello della sharing economy non condividono qualcosa di tanto diverso dal lavoro. E il riferimento non è solo a Task Rabbit. La dinamica società di San Francisco funziona come una sorta di marketplace che permette di far incontrare domanda di servizi e offerta di lavoro: tu chiedi la prestazione che ti serve e insieme indichi quanto sei disposto a pagare; oppure non “scopri” il tuo budget ma ti limiti ad aspettare che arrivino le quotazioni, per scegliere la più conveniente. Insieme alle tariffe, chi ti offre il servizio può esibire referenze, recensioni, gradimenti di altri utenti. Le critiche più feroci, però, giungono quando si tira in ballo Uber, il colosso che ha coltivato una popolazione di tassisti “fai da te”, e in tanti vi puntano il dito contro proprio in relazione alle ripercussioni che la sharing economy può avere sul mercato del lavoro. In un recente rapporto, nato da una collaborazione tra Uber e l’economista Alan Krueger, viene dipinto un quadro piuttosto roseo delle capacità di creazione di posti di lavoro. La stessa azienda ha detto che sta assumendo 20.000 nuovi conducenti al mese e attraverso questa relazione afferma che nelle grandi città americane, come Los Angeles e Washington, i conducenti guadagnano in media più di 17 dollari l’ora. Un dato che, però, non rispecchia la realtà, come testimonia il lavoro della giornalista investigativa Emily Guendelsberger che ha mostrato come a Philadelphia, città dove il servizio è molto diffuso, i conducenti guadagnano tutt’altre cifre che si aggirano intorno ai 10 dollari l’ora, escluse le spese. Dati ben lontani dalle dichiarazioni di Uber, e ben lontani dalla chimera dei 90 mila dollari l’anno professati dalla stessa startup.

photo credits: america.aljazeera.com
photo credits: america.aljazeera.com

Ciò che ne scaturisce è molto semplice: Uber, così come la sua parente Lyft (a onor del vero leggermente più generosa con i suoi conducenti), sembrerebbe un meccanismo molto efficiente per la produzione di lavori vicini al salario minimo. Com’è noto, l’azienda di San Francisco stabilisce i prezzi che i suoi autisti devono accettare, ed è altrettanto risaputo il clima di spremitura unilaterale che stanno effettuando sui propri “driver”. C’è molto fervore, inoltre, sul fatto che i posti di lavoro all’interno di queste aziende non siano delle vere e proprie occupazioni: i dati provenienti sia da Uber sia da Lyft mostrano che oltre il 80% dei loro conducenti svolgono un altro impiego o sono alla ricerca di un altro lavoro, e la stessa Uber ha affermato che il 51% dei suoi autisti è alla guida meno di 15 ore a settimana. Questo tipo di aziende, come molte altre della sharing economy, permettono, quindi, il proliferare di un nuovo tipo di lavoro, chiamato frazionato, in cui è possibile assumere lavoro extra quando e se ne avessero bisogno. La chiave del lavoro frazionato è la flessibilità sia per le imprese sia per i loro lavoratori. Bisogna prendere atto, però, che dal punto di vista economico queste aziende sono state esplicite ammettendo che il loro modello di business non funzionerebbe se i loro soci-conducenti, che sono attualmente collaboratori indipendenti, fossero trattati come dipendenti. L’ammissione chiara, quindi, che il conducente sia in una condizione ibrida, un qualcosa di non ben definito. Come il gatto di Schrödinger, né vivo né morto.

Ecco perché è davvero importante che il legislatore dia risposte veloci e all’altezza riguardo alla share economy, vista la sua forte crescita e la sua incidenza a livello globale. Un’attività che va studiata, compresa e normata senza cercare di ingabbiarla, come qualsiasi altra attività economica. Il rischio è proprio quello di spalancare le porte a un’economia sommersa, invece che di condivisione, a nuove forme di precariato e allo sfruttamento selvaggio di una nuova manodopera disoccupata e senza potere contrattuale. Un qualcosa ben distante da ciò che si professa futuro e innovazione.

[Cover credits: jonathan mcintosh, flickr creative commons]