Chiudete gli occhi e immaginate che nei prossimi due anni, una squadra europea di caratura media – un’Udinese o un Everton, per dirne un paio – inizi a mettere tutti in fila, a regalare performance memorabili e a vincere tutto quello che fino a quel momento non aveva mai sperato di vincere. A trasformare insomma in oro tutto quello che viene toccato. Ecco, questa è più o meno la storia (vera) di Matthew McConaughey.
Perchè questo marcantonio che ha appena tagliato il traguardo dei 45, che stava per fare la fine di un Brendan Fraser qualunque, a un certo punto si è svegliato e ha deciso che di prendersi tutto. Certo, già Killer Joe e Magic Mike non erano più le pellicole zuccherose e trascurabili a cui Matthew si era dedicato per i dieci anni precedenti. A impressionare però – com’è ovvio – è l’escalation che l’interprete texano ha avuto nell’ultimo biennio: sarà la stagione 2013/2014 quella che McConaughey racconterà ai nipotini.
E pensare che gli erano bastati cinque minuti: cinque minuti di un Matthew McConaughey versione broker/cocainomane in The Wolf of Wall Street per far capire a tutti chi avrebbe fatto la parte del leone nei mesi successivi. Una scena, quella girata faccia a faccia con l’avversario a cui pochi mesi dopo avrebbe soffiato la statuetta, Leo DiCaprio, che rappresenta l’ideale preludio a un clamoroso filotto. Un en-plein aperto da quello che sembra l’apice, l’Oscar, ma non lo è necessariamente.
Perchè diciamolo pure, la statuetta per l’interpretazione del cowboy sieropositivo Ron Woodroof in Dallas Buyers Club è meritata ma non sacrosanta: è prassi consolidata – non per forza errata – dei membri dell’Academy quella di guardare con occhio innamorato chi sconvolge il proprio corpo davanti alla telecamera. Un discorso che si può riferire non solo all’attore non protagonista di Dallas Buyers Club, Jared Leto, ma anche a numerosi esempi nella storia, dalla Charlize Theron di Monster alla Hilary Swank di Boys don’t cry. Non è però il tempo nè il luogo per approfondire tale spunto. É invece quanto basta per sottolineare che per McConaughey il meglio, la notte del 2 marzo scorso, doveva ancora arrivare.
Noi True Detective lo abbiamo conosciuto solo a inizio ottobre, ma in America, nella notte del Dolby Theatre, Matthew non era già solo Ron Woodroof, ma anche Rust Cohle. Ovvero, il personaggio con le sue fattezze che ti lascia dentro più cicatrici di tutti gli altri da lui interpretati messi insieme. Perchè la serie ideata da Nic Pizzolatto, trasmessa negli USA già a gennaio, ha regalato all’antologia del piccolo/grande schermo una figura a dir poco imponente: recuperato il fisico aitante, aiutato da una voce unica e con qualche ombra in più sul volto, Matthew – a fianco di Woody Harrelson – è il valore aggiunto di un prodotto già di per sè eccellente. Malato, sofferente, geniale, prolisso, dissociato, il suo Rust Cohle è un meraviglioso alieno dall’involucro umano, un distillato di nichilismo e metafisica che non lascia prigionieri.
I più attenti avranno notato qualche traccia di Rust Cohle anche in Cooper, il protagonista della miglior opera sci-fi di questo secolo, Interstellar. Confrontandosi con un genere che aveva già assaggiato quasi vent’anni fa (nell’interessante e sottovalutato Contact di Zemeckis) e con un regista tra i più influenti e visionari in circolazione – quel Chris Nolan che si prepara a vincere il suo primo Oscar – il buon Matthew non canna neanche stavolta. Recuperata la sua voce italiana abituale (Francesco Prando, dopo la parentesi Adriano Giannini in True Detective), Cooper abbaglia e commuove, rappresentando un’umanità disperata e grandiosa, che non si rassegna ad andarsene docile in quella buona notte.
E forse non è tanto McConaughey a trasformare in oro quel che tocca, forse è solo stato particolarmente bravo chi ha creduto in lui. Chi ha visto in quel marcantonio belloccio e convenzionale una somiglianza col buon vino: quello che invecchiando, migliora. Eccome, se migliora.
[Ph. Credits: Liz O. Baylen\Los Angeles Times]