Una punta di peso, un attaccante centrale dalle doti strabilianti, una grande tecnica individuale, un’abilità invidiabile nel gioco aereo, un innato senso del gol, insomma, un’icona del calcio italiano. Ha giocato con il Torino, con il Siena, con il Lecce e tante altre squadre ancora, ma lo ricordiamo soprattutto per gli anni trascorsi nel Chievo e nell’Atalanta. Lui è Simone Tiribocchi, classe 1978, da tutti conosciuto come il Tir, un calciatore che ne ha fatta di strada in serie A.
Dopo quasi un anno dal ritiro dal calcio come giocatore- avvenuto il 14 luglio dello scorso anno- il Tir racconta a Il Giornale Digitale la sua seconda vita nelle vesti di allenatore, in quanto dal mondo del calcio Simone non riesce proprio ad allontanarsi, ripercorrendo alcune delle emozioni che la sua carriera ha donato a lui e a tutti gli amanti dello sport più bello del mondo.

Quando hai deciso che “da grande” avresti fatto il calciatore?

In realtà non è una cosa che apprendi, è una selezione naturale poi, se sei bravo, vai avanti. Io ho iniziato a giocare nel mio paese, a Fiumicino, alla tenera età di sei anni, ero un pulcino che si è ritrovato lì, probabilmente, per stare con gli amici dell’epoca. Poco dopo sono andato ad Ostia Mare, la società di riferimento, e in seguito alla Lazio, quindi un settore giovanile piuttosto importante. Il grande bivio si è posto quando ho smesso di studiare e sono andato via di casa per andare a giocare a Pistoia, facendo una scelta simile a soli 16 anni ho capito che avrei dedicato la mia vita al calcio.

Cosa hai provato quando hai capito di avercela fatta, al tuo esordio in serie A?

Ho iniziato dalla vecchia C, l’attuale Lega Pro, poi sono passato subito in serie B, che comunque è una categoria importante, e col Chievo ho fatto il mio esordio in serie A, restandoci un anno. Ovvio, l’emozione vera è proprio in serie A, lì c’è quello che possiamo definire il calcio che conta, ci sono i campioni che hai sempre ammirato a dividere con te lo stesso campo di gioco. Se sei un calciatore a tutti gli effetti, comunque, inizi ad amare tutto l’ambiente, anche le categorie più piccole. Quando però realizzi il sogno di giocare in serie A, è davvero molto emozionante.

[Credits photo: bergamosera.com]
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La tua squadra del cuore, non l’hai mai nascosto, è la Roma. Immagino tu abbia sognato di giocare in maglia giallorossa, ci sei mai stato vicino?

L’ho sognato io e l’ha sperato tutta una vita mio papà. Per un anno c’è stata più di qualche voce, ho fatto anche un colloquio ma nulla di serio. Inoltre, cosa che mi ha fatto immensamente piacere, un anno nelle radio romane i tifosi giallorossi si lamentavano dei giocatori del momento, erano insoddisfatti, e affermarono di volerne uno attaccato alla maglia. Fecero il mio nome. Se ne parlò davvero tanto tra tifosi, così capii che avevo finalmente iniziato a far bene e che in qualche modo mi ero fatto un nome nel mondo calcistico. Però, più di questo, non c’è mai stato niente.

Ci racconti il tuo primo gol in serie A? Quale gol ricordi con più piacere?

Il primo gol in serie A è stato contro il Lecce. Io giocavo con il Chievo, eravamo a Verona, la scena è impressa nella mia mente: un calcio d’angolo, una respinta alla palla rimessa dentro da Mandelli, deviata da D’Anna che finisce a rimbalzare, o quasi, tra il mio ginocchio e il mio stinco, è uscita una palombella sul portiere e ha toccato la rete. Una palla indubbiamente fortunata, che però mi ha dato il primo gol in serie A. Senz’altro ne ho fatti anche di più belli, la fortuna in quel momento mi ha aiutato, ma il primo gol in serie A non si scorda mai.
Quello che ricordo più volentieri? Da quando ho smesso di giocare li ricordo tutti con immenso piacere, ma quello indimenticabile è stato contro il Milan. Ero sempre in squadra col Chievo, tornavo in campo dopo ben sei mesi d’infortunio sostituendo Amauri, e ho segnato il 2 a 1 della vittoria.

Da cosa deriva la tua esultanza?

Questa è una cosa che ho studiato insieme a Gloria, mia moglie. Era l’anno in cui andava l’aeroplanino di Montella e il violino di Gilardino così, visto che avevo iniziato a fare gol con un certa regolarità, abbiamo ideato quest’esultanza divertente. D’altronde il soprannome, Tir, mi è stato dato quasi subito, quindi come gioire se non fingendo di tirare la cordicella, ovvero imitando il gesto di suonare il clacson dei tir americani?

[Credits photo: corriere.it]
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Da quando hai smesso di giocare a cosa ti dedichi?

Ho smesso perché ci sono stati dei disguidi con il mio allenatore, mi hanno subito offerto di allenare i ragazzi del Vicenza e ho accettato volentieri, anche perché ho sempre desiderato allenare una volta smesso di giocare. Tra l’altro sognavo proprio di iniziare dai ragazzi, perché credevo che mi avrebbero fatto rivivere il mio percorso facendo ritornare la mia passione, e così è stato. Quindi ora sono l’allenatore degli esordienti del Vicenza, ho ancora due anni di contratto e continuerò a lavorare nel settore giovanile, che è una cosa molto interessante.

Oltre a questo hai altri progetti in cantiere?

Sono sempre stato competitivo e ambizioso. Ora ho iniziato con questo progetto perché è un mondo nuovo per me: pur trattandosi sempre di calcio, passare dalla parte dell’allenatore è una grande novità, una scuola che serve a me come persona. Il prossimo anno vorrei continuare la mia esperienza nel settore giovanile, soprattutto perché quel che credo è che il calcio non lo puoi cambiare, le regole che devi insegnare sono sempre quelle, ma io ai miei allievi vorrei tramandare anche certi valori. Ho giocato tanti anni, quindi provo a lasciar loro qualcosa di quel che ho appreso da me, nella speranza di riuscirci e di essergli sempre d’aiuto. Per adesso il progetto principale è questo poi, così come è stato per la mia vita da calciatore, si valuterà di anno in anno. Si vedrà se fare un passo un po’ più grande, se restare nel settore giovanile o se fare ancora dell’altro. Ora punto tutta la mia concentrazione all’anno prossimo.

Grazie a Simone Tiribocchi, da Il Giornale Digitale.

[Credits Cover: www.fcprovercelli.it]