L’Erasmus è una delle esperienze più belle nella vita di uno studente. Una di quelle che riempie il cuore e che difficilmente si riesce a dimenticare per una serie infinita di motivi, a partire dal legame che si instaura con la città, che diventa la propria in così poco tempo, e dalle amicizie che nascono in quell’ambiente. Ma non solo: l’Erasmus è anche imparare a vivere da adulti, staccandosi dal nido domestico, imparare a conoscere, e soprattutto, apprezzare nuove culture e nuovi modi di vivere. L’Erasmus è sperimentare, è vivere un’esperienza a tutto tondo.

Per far si che il progetto dell’Erasmus diventasse realtà, però, di strada da percorrere ce n’è voluta molta: andare contro tutto e tutti non è stato per niente facile. Tutto è partito da Sofia Corradi, conosciuta con l’appellativo di “mamma Erasmus“, e da una sua umiliazione ricevuta dopo aver trascorso un periodo di studio alla Columbia University: una volta tornata a Roma, dove studiava, non è riuscita a farsi riconoscere i meriti ottenuti all’estero. Nonostante ciò, dopo essersi laureata, trovare lavoro è stato un gioco da ragazzi: da quel momento per lei è iniziata la battaglia per vedere un’Europa unita, almeno nel campo dell’università e degli studi in un altro Paese, perché sapeva che avrebbe potuto essere un aiuto per tutti gli studenti, sia nel campo professionale che in quello personale.

Noi de Il Giornale Digitale abbiamo intervistato proprio la professoressa Corradi, che ci ha raccontato qualcosa di più sull’Erasmus e sulle battaglie che ha combattuto per vedere il suo progetto finalmente realizzato.

Quando è nato nella sua mente il progetto Erasmus?

Tutto l’Erasmus è nato da una solenne arrabbiatura e umiliazione che mi presi quando ottenni la prestigiosissima borsa di studio Fulbright che mi consentì di vivere e pagare le tasse universitarie. In tal modo potetti fare un’esperienza meravigliosa, studiando per un anno alla Graduate School of Law, la facoltà post laurea in giurisprudenza della Columbia University, e ottenendo un master in Diritto comparato.
Tornata a Roma, chiesi alla segreteria studenti della mia facoltà di farmi riconoscere il master come equivalente ai tre esami che mi mancavano alla tesi. Il direttore della segreteria guardò il mio certificato quasi con disprezzo e mi disse che non aveva mai sentito nominare la Columbia University e che sarei dovuta tornare a casa a studiare anziché passare il mio tempo in giro per il mondo e poi andare a chiedere una laurea. La mia umiliazione è stata così grande che se ancora ci penso mi viene l’amarezza: io non intendevo fare niente di male, anzi mi sembrava una cosa normale sostituire 3 esami con un master in un’istituzione così prestigiosa, perché la vera moneta che circola in ambiente Erasmus è proprio il prestigio di ciascuna università.
Ho fatto quei tre esami e quando ho iniziato a cercare lavoro lo ottenevo sempre: cambiavo solo per migliorare. A 30 anni, poi, mi sono ritrovata ad essere assistente all’università e consulente per le relazioni internazionali dell’associazione fra i rettori delle università di tutta Italia. Dato che questa cosa di un anno di studio all’estero aveva tanto giovato a me – gli altri il lavoro non lo trovavano – ho iniziato a darmi da fare per far si che questa cosa venisse generalizzata.

Qual è stato l’ostacolo più grande da superare per portare a termine il progetto?

La cosa più difficile in assoluto da far accettare è stata il riconoscimento degli studi fatti all’estero, cioè ottenere i crediti per gli esami superati. I grandi studiosi e i grandi scienziati erano entusiasti, a differenza della burocrazia che a quei tempi era di un’ostilità invincibile: mi dissero che avrebbero riconosciuto gli studi ad uno studente solo se aveva la famiglia all’estero e, soprattutto, che nella pubblica amministrazione era vietato tutto ciò che non era esplicitamente consentito dalla legge. Allora ho cominciato ad organizzare delle riunioni tra i rettori delle università europee, preparando degli schemi di equivalenze soprattutto per le materie in cui era più facile.
Non c’era niente da fare: ad un certo punto mi sono trovata ad avere tutto contro. Pensandoci a posteriori, agivo quasi nell’illegalità perché a livello europeo nei trattati di Roma non si riteneva che fra i compiti di competenza di quella che era allora la nascente Europa ci fossero l’istruzione e l’educazione. Io, però, mi diedi tanto da fare che ad un certo punto si persuase il ministro Misasi, con l’aiuto del presidente dell’associazione fra i rettori, un matematico famosissimo, che disse che la mia idea era buona. Proposi che le università potessero gestire direttamente tra di loro i rapporti internazionali: il ministro inserì questa mia idea nel disegno di legge, idea che poi ci ha messo 11 anni ad arrivare in porto come legge. Però io in quegli 11 anni non ho dato pace a nessuno perché, non avendo poteri, dovevo farmi strada e farmi ascoltare benevolmente.

Non è certo un caso che la chiamino “mamma Erasmus”. Ci racconta in che cosa consiste oggi il suo progetto?

Ci sono alcune cose che l’Erasmus non è, e sono tre principalmente. Prima di tutto, l’Erasmus non è mirato all’apprendimento o al miglioramento delle lingue. Certamente, uno che va in Erasmus in un certo Paese alla fine o ha migliorato o ha imparato la lingua, però non è questo lo scopo primario, anche perché per andare si richiede che un po’ già si conosca la lingua.
Poi non è mirato a migliorare il livello professionale dello studente. Lo scopo dell’Erasmus è che lo studente vada a fare una full immersion prolungata, o di 6 o di 12 mesi, in una cultura diversa dalla propria, nella quale non viene accolto in modo ostile come capita a un migrante. Lo studente erasmiano è accolto con molta amicizia dai suoi colleghi, che fanno in modo che sia a suo agio.
La terza cosa è che l’Erasmus non è un programma per studenti di livello eccelso. Quando uno studente fa domanda c’è un solo requisito assolutamente necessario: deve essere in pari con gli esami. Se ci sono più candidati che posti, allora il giudizio deve essere dato unicamente sulla media dei voti.

Credits: www.lifelonglab.it
Credits: www.lifelonglab.it

Che cos’ha in più uno studente che ha trascorso un periodo di studio o di tirocinio all’estero?

Un erasmiano diventa una persona lungimirante, propensa a risolvere le difficoltà più mediante il dialogo che il conflitto, fa delle esperienze di vita adulta tanto che torna autonomo, deciso, ben organizzato.

Quanto conta, in termini lavorativi, aver partecipato al programma Erasmus?

Le statistiche ci dicono che gli erasmiani, dopo la laurea, trovano lavoro in metà tempo che i non erasmiani e che, nel giro di 10 anni, fanno un’ottima carriera ed arrivano ad occupare delle posizioni decisionali.
Inoltre, molte industrie italiane hanno deciso di non fare nemmeno colloqui con le persone che non hanno la parola “Erasmus” all’interno del curriculum.

L’Erasmus è importante per la parte razionale della persona, ma anche per quella affettiva. Quanto sono importanti i rapporti che si instaurano durante il periodo all’estero, sia con le persone che con la città che si è abitata?

Si stabiliscono rapporti affettivi non soltanto con le persone che si incontrano in Erasmus, ma anche con la città. Di questo c’è un esempio che risale ai tempi in cui questi studi all’estero non si chiamavano ancora Erasmus: si tratta del generale che comandava le truppe francesi durante la guerra di Liberazione, negli anni ’43, ’44, ’45. Questo generale e gli alleati si erano spartiti l’onore di liberare una determinata città italiana e ai francesi toccò Siena. Arrivati in prossimità della città, il generale riunì i suoi colonnelli e chiese come poterla prendere, ma quando gli fu proposto di partire con due o tre giorni di bombardamento preparatorio per continuare con un cannoneggiamento destinato a sconfiggere le difese dei nemici, ovvero i tedeschi, troncò tutto dicendo che su Siena non avrebbero sparato nemmeno un colpo di cannone. Il comandante, infatti, era stato studente di storia dell’arte all’università di Siena: conosceva le sue bellezze ed era ancora molto affezionato alla città.

L’esperienza dell’Erasmus viene da molti definita come un sogno, come un momento di distrazione dalla propria vita quotidiana e dall’esperienza universitaria del proprio Paese. I problemi, però, soprattutto linguistici, di adattamento e di costruzione delle amicizie non mancano. Secondo lei, qual è il più difficile da affrontare?

Queste sono le risorse dell’Erasmus, non i problemi. All’inizio è un po’ difficile perché uno viene dalla casa della mamma, in cui trova tutto fatto, ma dopo 15 giorni è un vero e proprio navigatore. Ciò è dovuto anche al fatto che non si è scaraventati all’avventura, ma si va in un ambiente amichevole, molto simile a quello che si conosce in patria nella propria università.

E quanto è difficile, invece, riabituarsi alla vita di sempre una volta finito l’Erasmus?

Non è difficile. Prima di tutto perché ritorni alla tua università, dai tuoi amici e dai colleghi di prima. Poi hai anche tutti gli altri che sono stati in Erasmus, i quali fanno parte dell’associazione di ex erasmiani e fanno accoglienza agli erasmiani europei in visita da loro. Insomma, si trovano in un giro fantastico.

Uno dei problemi del progetto è quello che riguarda le borse di studio, che hanno un livello non troppo alto e che fanno si che non tutti gli studenti possano permettersi di partire. Come si può risolvere questo problema?

È vero, le borse di studio potrebbero essere un pochino più alte, ma chi è arrivato all’università è già un privilegiato. In più, lo studente universitario ha diritto ad avere la stanza a prezzo politico nella casa dello studente – alcune università addirittura danno il posto gratis – e a mangiare ad un prezzo politico nelle mense universitarie. Se uno si dà da fare, poi, riesce anche a trovarsi un lavoretto. Ai tempi in cui ero alla Columbia University, per esempio, mi pagavano 3 dollari l’ora per passare in rassegna tutti i libri della biblioteca universitaria del settore giuridico e segnalare quelli che mancavano; oppure mi pagavano per tenevo conferenze sul sistema universitario italiano, che io conoscevo bene. A proposito dei soldi, in realtà c’è un fenomeno strano: la presenza di più borse di studio che di candidati. Mi è capitato di ricevere telefonate da fondazioni – una volta perfino dal Ministero degli esteri – per dirmi che su 100 domande ricevute solo poco più di una decina di candidati erano degni e non sapevano a chi dare le borse restanti.
Inoltre gli studenti ignorano che le borse di studio sono cumulabili, a meno che ci sia scritto che non lo sono e, infine, per partire c’è sempre il metodo “valigia pronta”. Lo studente per andare in Erasmus deve solo andare all’ufficio omonimo della sua facoltà e riempire un modulo con domande generali, oltre a quali lingue conosce e se ha delle certificazioni. Alla fine viene redatta una graduatoria e i primi si aggiudicano le borse. Quello che non si sa, però, è che all’ultimo momento ci sono numerose rinunce: per questo io, a chi non è stato preso, consiglio di andare ogni settimana all’ufficio Erasmus a informarsi. Se le rinunce sono tante, una borsa di studio si rimedia sempre. Tutti quelli che hanno applicato il metodo “valigia pronta” alla fine sono riusciti ad imbarcarsi. Anche perché, un’università che ha un tot di borse e non riesce a collocarle è solo inefficiente.

Qual è il consiglio che dà a chi vorrebbe partire ma non lo fa per mancanza di coraggio?

Andare in Erasmus è come giocare una partita di tennis: è una cosa faticosa perché il sole picchia in testa, si suda, si corre, magari si scivola e ci si sbuccia un ginocchio e alla fine si è tanto affaticati. È inutile voler persuadere chi tutto questo non piace. Qualcuno pensa che l’Erasmus debba essere obbligatorio per tutti, ma per me non è così: una persona ci va se gli piace il nuovo e se gli piace mettersi in gioco, se ha la curiosità di apprendere e di vedere cose nuove.
A volte delle madri mi chiedono come fare a persuadere i figli ad andare in Erasmus e io rispondo che non possono fare niente, se non incoraggiarli a fare accoglienze in università agli erasmiani. Se iniziano a frequentare gli erasmiani italiani di ritorno o gli erasmiani europei che vengono da noi, deve essere proprio strano se non si persuadono e non hanno voglia di partire.