Decadente, malato, praticamente in crisi. E’ la fotografia dello sport italiano.
Parlare di sport in questo momento – un momento segnato da una crisi economica senza precedenti e da una diffusa sensazione di precarietà e di incertezza rispetto al futuro – può sembrare qualcosa di superfluo, forse anche di irriverente. Eppure non dovrebbe essere così. Una Nazione evoluta e che vuole il bene della comunità, dovrebbe con convinzione, quasi con ostinazione volere che lo sport possa essere una straordinaria occasione di riscatto e un modo per far crescere quegli elementi di positività dei quali, materialmente e soprattutto simbolicamente, il nostro Paese ha un bisogno quasi disperato.

Il Presidente del Coni, Giovanni Malagò ha detto che lo sport può contribuire a far crescere l’Italia. È un’affermazione molto impegnativa, in una Nazione come l’Italia, dove ancora esiste la preistorica distinzione tra sport (leggasi dannatamente calcio) e altri sport, come a dire “sì, ahi noi, ci sono anche loro”.

C’è, prima di tutto, un elemento immateriale, simbolico. Lo sport è una grande metafora del vincere e del perdere, del fare squadra e dell’impegno individuale, della fatica e della preparazione che servono per ottenere risultati, della capacità di programmare e di innovare. Dietro a queste dimensioni ci sono dei valori che l’Italia deve riscoprire se vuole avere un futuro: saper vincere significa saper coltivare un legittimo orgoglio e non farsi ingannare dall’ansia da prestazione; saper perdere significa saper tollerare le frustrazioni e trovare il coraggio e le risorse per ripartire, senza pensare che sia sempre e comunque “colpa degli altri”; saper fare squadra vuol dire riconoscere che, in un progetto collettivo, si vince o si perde assieme e che la forza del collettivo è superiore rispetto a quella delle sue parti; mettere al centro l’impegno individuale vuol dire credere in sé stessi, ma anche rinunciare ad ogni opportunismo ed assumere fino in fondo le proprie responsabilità; saper programmare vuol dire riconoscere che i risultati non avvengono per sbaglio o per caso; saper innovare significa non dare per scontate le cose e pensare che potrebbero anche essere diverse da come sembrano. Lo sport, in questa prospettiva, è chiamato a dare l’esempio. Certo, non è il solo.

Ma l’esempio dello sport ha in sé qualcosa di speciale per almeno due motivi: prima di tutto perché, pur non essendo la sola eccellenza del nostro Paese, è l’unica nella quale possono e devono convivere tutti i valori fondativi – saper vincere, saper perdere, saper fare squadra, sapersi impegnare, accettare la fatica, guardare lontano – sui quali costruire una prospettiva di riscatto; e poi perché credere nello sport e investire nello sport significa credere ed investire in qualcosa che produce quello che potremmo definire “un indotto”: che produce, cioè, effetti collaterali, indiretti, di grande rilievo.
Il “valore nel tempo” generato dallo sport non si misura in termini di medaglie, di mondiali vinti, di record: questi sono obiettivi immediati, ma sono anche quelli che – da un certo punto di vista – ci interessano meno. Gli obiettivi indiretti, quelli che ci interessano davvero, si misurano in termini di benessere, di salute, di prevenzione (e di conseguente diminuzione della spesa sanitaria), di formazione, di educazione, di autostima.

E allora che cosa deve fare “davvero” il CONI? Può sembrare una domanda retorica. Cioè una domanda che contiene già in sé stessa la propria risposta. Ma nulla è più traditore dell’ovvio. La mission del CONI è sancita dal suo statuto. Pur puntando anche, necessariamente, alla dimensione agonistica e all’eccellenza, il CONI ha essenzialmente una funzione promozionale ed etica: il suo statuto parla dello sport come “elemento essenziale della formazione fisica e morale dell’individuo”. C’è, dietro, una concezione personalistica della pratica sportiva, che considera lo sport nella sua valenza educativa e culturale prima ancora che prestazionale e ne riconosce anche le valenze “trasversali” di carattere sanitario, economico, turistico. Il fine, in altre parole, resta la persona e non lo sport in sé stesso.

Chiedersi che cosa debba fare “davvero” il CONI vuol dire sfidare alcuni pregiudizi. È una di quelle domande che non ci si fanno mai, perché consideriamo scontata la risposta. Oppure troppo difficile. Ma a forza di considerarne ovvia la risposta, questa domanda ritorna ad inquietarci. Dobbiamo essere preoccupati se, nello statuto, troviamo riferimenti così puntuali e così insistenti alla (peraltro assolutamente indispensabile) lotta al doping. Dobbiamo essere preoccupati se, nella Carta fondamentale, troviamo il richiamo perentorio alla dimensione educativa dello sport e poi, nella vita vera, non abbiamo la forza di opporci a quel manipolo di (chiamiamoli) tifosi che, di fatto, dichiarano guerra allo Stato e alle regole elementari della convivenza civile. Dobbiamo essere preoccupati se quello del razzismo è un linguaggio comune e ricorrente, per fortuna non prevalente, anche nelle situazioni più spicciole ed a noi più vicine.

La domanda, se la vogliamo riformulare, è un po’ questa: tra il dire e il fare, tra la missione istituzionale sancita dallo statuto (che è la nostra ragion d’essere) e la concreta articolazione istituzionale ed operativa del CONI, c’è veramente coerenza? Oppure lo statuto ci richiama a fare delle cose e poi, concretamente, ne facciamo altre? Noi che crediamo più alla forza dell’esempio che alla forza delle parole (che troppo spesso sono chiacchiere); noi che crediamo più al valore del pulpito che a quello della predica; noi, che siamo abituati ad interrogarci sul senso e sull’appropriatezza di quello che facciamo, siamo convinti che il CONI abbia, strutturalmente, un problema di rappresentanza: da una parte, infatti, ci sono le affermazioni di principio ed i progetti; dall’altra le Federazioni e le Società.
Tra queste due istanze c’è uno strabismo divergente. Perché il vero obiettivo delle Società è quello di fare tessere, disporre di impianti, ottimizzare i calendari, trovare i soldi per vivere. Tutto il resto è, caso mai, un effetto collaterale. Le Federazioni e le Società, insomma, si trovano costrette, forse loro malgrado, a perseguire finalità che guardano a ciò che per loro è importante, ma non possono avere occhi per guardare a qualcosa che sembra andare contro il loro stesso interesse.
Si rileva, con una certa preoccupazione, che qualche volta questa eccessiva attenzione per gli obiettivi di proselitismo e per la competizione, questa finalizzazione ai risultati, alle prestazioni e alla specializzazione precoce, rischiano di degenerare. E la degenerazione ha indicatori molto precisi: il doping, gli abbandoni, lo smarrimento della natura stessa della pratica sportiva, che è disciplina e non risultato.

Resta perciò l’esigenza di farsi carico degli obiettivi statutari: e quindi qualcun altro – con altre finalità, altre priorità, altri strumenti – dovrà pur occuparsi di “tessere la tela” del rapporto fra le diverse dimensioni dello sport e le sue implicazioni educative, etiche, civili, economiche, sanitarie, turistiche. Perché altrimenti non lo fa nessuno. E, se non lo fa nessuno, si perde una miniera di opportunità. Questo “qualcun altro”, secondo noi, sono le articolazioni territoriali del CONI. Per tante ragioni: perché ogni territorio esprime una propria specificità; perché il livello territoriale è più vicino ai praticanti e perché può far nascere le esperienze “dal basso”, in maniera democratica e partecipata, come confermano numerosi progetti; perché il livello territoriale è quello più vicino agli enti locali – le Regioni, le Province autonome i Comuni – con i quali può essere stabilita un’interlocuzione “di prossimità”, basata sulla conoscenza personale, la stima reciproca, la relazione di fiducia. Così è per il CONI Trentino, che ha trovato nella Provincia autonoma di Trento un partner convinto e autorevole.

Su queste premesse, il CONI può e deve svolgere una funzione assolutamente preziosa. Si tratta concretamente di: concorrere, assieme alle articolazioni centrali dello Stato, alla definizione degli indirizzi generali di politica dello sport e alla verifica dei risultati; avallare con la propria autorevolezza le migliori esperienze locali, agevolando la relazione con il livello regionale e stimolando la loro diffusione e la loro riproduzione in altri contesti.

Soprattutto in questa fase di risorse sempre più scarse, e comunque limitate, i progetti territoriali del CONI non devono e non vogliono innescare assurde e inattuali “guerre tra poveri”. Il CONI non chiede di spendere di più: chiede che si spenda meglio. Finanziare l’attività di educazione nella scuola sul budget dell’istruzione,potenziare le strutture e tutelare gli educatori e gli istruttori: finanziando, in altre parole, la pratica sportiva per quello che realmente è.
Il risultato di tutto questo allo stato attuale? Un Paese di 60 milioni di abitanti che non riesce ad esprimere nessuna eccellenza in alcuni tra gli sport più praticati al mondo. Lo specchio fedele di un Paese in crisi e senza identità.