Il selfie non è un moda, chiariamolo subito. Meno che mai nello sport. Da sempre, uno spaccato importante della nostra società. È una moda la parola selfie, non l’autoscatto in se. La novità, semmai, è un’altra: il giornalismo è cambiato e con esso la comunicazione. I Social Network, Facebook, Twitter e lo stesso Instagram, hanno reso gli sportivi ancora più protagonisti. Non solo della competizione in sé, ma anche dei festeggiamenti. La prima immagine del successo è loro, non dei fotografi. Del singolo, non della società. L’estro è quello del giocatore più fantasioso, il leader, quello capace di coinvolgere i compagni. Al pubblico tutto questo piace: l’immagine che arriva dallo spogliatoio o dal campo dà il senso dell’unicità, di un dono da condividere con i propri tifosi, e non solo.
Di qualcosa che non troverai sui giornali e, in ogni caso, di un gesto vicino a quello che le persone volgarmente dette “comuni” compiono quotidianamente. Il selfie possono farlo un gruppo di amici dopo aver vinto la finale del torneo parrocchiale e al tempo stesso i giocatori del Bayern Monaco dopo aver vinto la Bundesliga. Perciò viva il Selfie. Se sopravviviamo a quelli di Icardi e della sua compagna possiamo dedicarci all’aspetto strettamente sociale del gesto. D’altronde gli sportivi sono giovani, belli e nella maggior parte dei casi simbolo di integrazione. Nelle principali squadre europee, e non solo, giocano assieme biondissimi tedeschi e ragazzi di colore, sudamericani e slavi, tatuati e perfettini alla Kaka o alla Cristiano Ronaldo, uno che conta 50 gol e zero tatuaggi. Chi meglio di loro?

Un tempo era la telecamera. L’arrivo della pay tv nelle case degli italiani portò un attaccante timido e riservato come Gabriel Omar Batistuta a dichiarare il suo amore per la moglie Irina, urlandolo davanti ad una delle telecamere di Telepiù. Poi ci pensò Totti, dopo un gol contro la Lazio, a inquadrare i veri protagonisti del derby: i tifosi della curva Sud. Anche la fotografia non è una novità un’assoluto: molti ricorderanno Eto’o fotografare Snejider dopo una rete in Champions League al Werder Brema. Parliamo di qualche anno fa: Eto’o non utilizza uno smartphone ma la macchina fotografica presa in prestito da un professionista a bordo campo.

Nel frattempo le cose sono cambiate, i campioni si sono avvicinati ai Social Media, le società sportive hanno modificato il loro modo di comunicare. Un tweet di un giocatore vale più di un comunicato stampa. Fa già storia il selfie di gruppo che i giocatori del Bari, serie B, scattano dallo spogliatoio da cinque partite a questa parte. Tutte vincenti. Ora che non hanno più una Società il loro modo di comunicare è primordiale, naturale. E la città si stringe a questi ragazzi e condivide i loro scatti. Tutto spontaneo o c’è una strategia dietro questa operazione?

La foto degli Spurs (Nba) è una delle più retwittate della storia, Marco Belinelli ricorderà a lungo questo scatto verso i playoff. La selfiemania ha contagiato anche sport individuali, e un tempo molto nobili e poco popolari, come il tennis, la Moto GP e la Formula 1 e coinvolge giocatrici di calcio femminile e squadre di pallavolo. Insomma è caccia allo scatto homemade, fatto in casa, o meglio nello spogliatoio o in campo. A noi piace, perché offre uno spaccato del momento, un attimo di gioia rubato a ragazzi milionari che però, in fondo, sono persone come noi. Che vogliono divertirsi e condividere la propria gioia. A loro chiediamo un solo favore: più entusiasmo e meno gossip. Che di corna, tradimenti e schifezze varie ne abbiamo piene le tasche. E gli smartphone.


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