Chi si era illuso che in Italia ci fosse l’humus adatto per uno sviluppo e una crescita rigogliosa di startup Made in Italy, si è sbagliato. Il Belpaese non è il terreno giusto in cui affondare le radici di una nuova realtà imprenditoriale ad alto contenuto innovativo e tecnologico, e soprattutto dove farla crescere. Il report Compass 2015 sui Paesi più fertili per la nascita di startup non considera affatto alcuna realtà della nostra penisola.
Venti anni fa, quasi tutte le startup tecnologiche erano create in ecosistemi fertili come la Silicon Valley e Boston. Oggi puntare sulle startup è divenuto un fenomeno globale, con aree ad alto tasso di crescita e sviluppo simili alla Silicon Valley che stanno rapidamente emergendo in tutto il mondo. Un panorama interconnesso e globale che sta prendendo forma e che Compass, azienda di analisi e comparazione, ha voluto mappare raccogliendo dati e snocciolando numeri che aiutano a capire come, dove e perché questo coraggioso nuovo mondo economico si sta sviluppando e sta crescendo. Il secondo report Compass, che segue dopo tre anni il primo, è stato elaborato in collaborazione con Global Entrepreneurship Network, Dealroom, Orb Intelligenza, Deloitte Australia e 60 partner locali (tra cui incubatori, acceleratori, VC, politici, e università), oltre al supporto di oltre 11mila tra startup, investitori e azionisti che hanno risposto ad appositi questionari. Il fulcro dello studio dedito a stilare i primi 20 ecosistemi per la crescita e lo sviluppo di startup è un indice prodotto tenendo in considerazione 5 componenti principali: Performance, Funding (capacità di trovare e attirare finanziamenti), Talent, Market Reach (capacità di conquistare mercato), e Startup Experience (correlazione tra il successo di un’azienda e la presenza, al proprio interno, di persone con esperienze pregresse nell’ambito della neo-imprenditoria).

Tra le città o le aree che hanno fatto i più grandi balzi in avanti spiccano New York, Austin, Bangalore, Singapore e Chicago. Naturalmente tutte dietro alla Silicon Valley, ancora stabilmente in testa. Le ragioni del suo primato sono facilmente deducibili. Basti pensare alla sua storia e alle sue dinamiche. La Silicon Valley non è esplosa dall’oggi al domani ma si è costruita in settanta anni. C’è una porta girevole tra università e imprese. Ci sono gli investimenti. C’è l’accesso al credito. E, non ultima, c’è l’abitudine consolidata da parte delle grandi aziende a investire nelle startup. Tra le capitali europee, compaiono soltanto Berlino, Londra, Parigi e Amsterdam, con un rapporto 6 a 2 tra città americane e europee nei primi dieci posti. Trovano spazio anche realtà urbane del Canada, del Brasile, dell’India e dell’Australia. Non solo Paesi avanzati, dunque, ma anche Paesi emergenti che aprono le proprie economie all’innovazione tecnologica e al digitale, terreno fertile per startup con ampi margini di crescita.
Grande assente è l’Italia. Nessuna città italiana. La fama di creativi non basta. Non basta soprattutto ad attrarre investitori, a legare qualcuno ad un proprio progetto, anche se interessante. Da una parte, probabilmente, si pecca sul fronte funding e market reach: si fa troppo poco per far conoscere all’esterno della propria realtà le idee innovative, si fa poco networking e non si alimentano quei processi virtuosi che porterebbero a fare rete e garantirebbero uno scambio continuo di competenze. Dall’altra in troppi si nascondono ancora dietro all’equazione investimento uguale azzardo e non opportunità di crescita. Una convinzione frutto della poca informazione e della scarsa lungimiranza di chi detiene un capitale. Passando poi ad altri tipi di considerazioni, si nota come i governi dei diversi Stati hanno pensieri contrastanti in merito ai finanziamenti per le startup. Alcuni dati: il Regno Unito ha investito oltre 11 milioni di dollari, ben il doppio della Germania, quattro volte il budget messo in campo dalla Francia, sei volte quello della Spagna e, squillo di trombe, ben trenta volte il fondo messo a disposizione dall’Italia. Un Paese che di certo non si presenta come l’incubatore ideale per le startup spingendo chi ci prova a due strade obbligate: chi riesce ad emergere, prima o poi, va via gettando le basi in Paesi con un ecosistema maggiormente sviluppato , chi rimane, invece, è costretto a un ridimensionamento delle proprie ambizioni.
Qualche piccolo passo in avanti è stato fatto, grazie a qualche normativa che semplifica la vita a chi vuole fare o investire in startup, ma tanta è ancora la strada che l’Italia deve macinare per diventare un’attrattiva dal punto di vista economico e innovativo. Magari trainata da quelle eccellenze già presenti sul nostro territorio che dovrebbero essere buoni maestri per chi ha voglia (e non solo) di imparare. E magari da scelte più coraggiose da parte di chi governa.
[Cover credits: Chi Birmingham]