Il Festival Internazionale del Giornalismo, l’evento che da 10 anni riunisce a Perugia giornalisti ed esperti di comunicazione da tutto il mondo per fare il punto sulla professione, incontrare esperti del settore e scambiarsi interessanti spunti sul ruolo dei media nel raccontare il mondo, è in corso in questi giorni. Parlare di giornalismo al Festival di Perugia significa però non solo approfondire tematiche legate alla professione, ma anche nuove forme di racconto, di linguaggi e tecnologie diverse. Perché è innegabile che anche i brand e i grandi marchi siano diventati editori, e quindi a tutti gli effetti protagonisti della scena mediatica, e del Festival del Giornalismo stesso. “Contaminazione” è la parola corretta: le aziende comunicano come i media, o per lo meno ci provano, si attrezzano, per averne le stesse possibilità, le tecniche, i linguaggi. I brand sono diventati editori, con una grande responsabilità aggiuntiva: quella di non mentire ai propri stakeholder.

Un passaggio decisivo, decretato non tanto dalla manifestazione ma dalla realtà dei fatti. Finita l’era dei comunicati stampa unidirezionali, quelli che raccontano solo una versione dei fatti, è arrivato il momento delle storie. Quelle vere. Il momento del confronto multipiattaforma e multiscreen, l’epoca in cui Report chiama in causa Eni, in TV, e l’azienda chiede di poter rispondere su Twitter perché “I tempi molto stretti della televisione non garantirebbero un’accurata documentazione dei fatti”.

Fonte: Eni (account Flickr)
Fonte: Eni (account Flickr)

Chi ha scelto di partecipare al Festival del Giornalismo, in quanto azienda, l’ha fatto non tanto per portare a Perugia stand, promozioni e hostess, ma per comunicare con vere e proprie redazioni. Comunicare, perché come ha detto ieri Daniele Chieffi, responsabile dell’ufficio stampa Web, del social media management e del reputation monitoring di Eni, in un panel dal titolo “Fare pr e informazione sui social media” comunicare non è differente da informare. E infatti, il mood del Festival è questo: comunicare e informare non sono due cose diverse, comunicazione e giornalismo sì. Questo spiega l’esplosione del termine “storytelling“, usato (e abusato) in quasi tutti i panel del Festival.

Il motivo è molto interessante: lo storytelling permea tutte le modalità del racconto, da quello scritto a quello visivo, la nuova frontiera da presidiare. Da trenta secondi a pochi minuti, l’utilizzo delle immagini e dei video sta catturando l’interesse dei grandi network mondiali, che si stanno adattando a questo nuovo linguaggio e sfuttano immagini, gif, infografiche per raccontare cosa succede nel mondo. Si gira in hd o con lo smartphone, si sfruttano le dirette Periscope e quelle di Facebook, c’è chi comunica con Vine e chi con Snapchat, in 30 secondi. Purché il racconto sia immersivo. Le nuove storie devono “mostrare”, non solo raccontare. La parola non è più abbastanza, e non c’è distinzione, in questo, tra giornalismo e comunicazione.

Fonte: Eni (account Flickr)
Fonte: Eni (account Flickr)

Storytelling è quindi il termine più inflazionato non solo del Festival, ma degli ultimi anni. Tanto da essere definito un’arma di propaganda da qualcuno, per altri una tecnica neutra per migliorare l’efficacia della comunicazione e per altri ancora un espediente moderno per raccontare una “cosa che non c’è”. Marsha Barber, docente dell’università di Ryerson, ha approfondito in un panel dal titolo “Lo storytelling in tv: come sviluppare e costruire storie impossibili da dimenticare” le cinque regole per raccontare una storia: a) La verità prima di tutto – partire dai fatti; b) Raccontate i dettagli; c) Coinvolgete la vostra audience; d) Segmentate la narrazione (ogni buona storia ha un inizio, uno svolgimento e una fine); e) Colpite la testa, il cuore e la pancia.

Secondo queste regole, lo storytelling non è certamente un’esclusiva del brand journalism, ma lo è anche del giornalismo informativo, proprio perché parte dai fatti. Per far sì che un contenuto sia notiziabile, oggi non deve essere solo anticonvenzionale, ma deve anche attingere a fonti anticonvenzionali.

Credits: Cinzia Zenocchini via Coca-Cola Company
Credits: Cinzia Zenocchini via Coca-Cola Company

Adi Kochavi, di Vocativ Films ha parlato proprio di questo aspetto: il 10% delle storie che vengono raccontate sono quelle che provengono da informazioni presenti nel cosiddetto surface web, e sono quelle indicizzate dai motori di ricerca più comuni e che diventano mainstream, alla portata di tutti gli utilizzatori del web. Se ci limitassimo a considerare queste pagine, ci limiteremmo a considerarne soltanto una parte, quella più visibile. E questo vale non solo per il web, ma anche per le storie e per i fatti che ascoltiamo in giro. È la differenza tra una notizia ascoltata in un bar, e quella recepita da un tassista, mentre siamo soli. Federico Buffa, famoso storyteller sportivo, utilizza proprio questa tecnica: quella della ricerca delle fonti anticonvenzionali. Per lui una chiacchierata con il primo allenatore di Cristiano Ronaldo vale molto di più di una notizia ritrovata sulle prime due pagine di Google.

Se il surface web è quello che sta sulla superficie, è evidente che quello che c’è sotto è anche più vasto. È questo il deep web, ossia tutto ciò che i motori di ricerca non riescono a raggiungere: tutto ciò che si trova dietro a un firewall – le reti interne delle aziende, i siti protetti da password, i social network e via di seguito. Si stima che questa parte rappresenti circa l’80% dell’intero web. Sebbene spesso all’espressione deep web si associ la sensazione che si stia parlando di qualcosa di illegale, ciò non è vero: semplicemente, è qualcosa che resta nascosto alla prima occhiata. Una cosa diversa è il dark web, quell’ultimo 10% di siti non indicizzati dai normali motori di ricerca, ospitati su server anonimi e accessibili soltanto tramite mezzi che permettano di nascondere la propria identità.

Fonte: Eni (account Flickr)
Fonte: Eni (account Flickr)

Lo storytelling è uno strumento – ha dicharato Dino Amenduni, socio di Proforma ed esperto di comunicazione politica – e come tutti gli strumenti bisogna saperlo usare. Bisogna evitare le distorsioni, come propaganda o peggio ancora “fuffa”. L’errore è usarlo quando non si ha nulla da dire, per riempire dei vuoti. Quello di oggi rischia di diventare un maledetto storytelling perché favorisce i potenti, mentre potrebbe essere uno strumento utilissimo alle minoranze. Dobbiamo accettare il fatto che lo storytelling non è un’esclusiva dei potenti. In Cile, nel 1978, il comitato del NO alla dittatura di Pinochet aveva solo 15 minuti, da mezzanotte a mezzanotte e un quarto, per rovesciare una situazione impossibile. Lo sfruttò utilizzando storie, e cambiò l’esito delle votazioni“.

Una storia di successo nasce dalle persone, per le persone. Un personaggio con cui identificarsi è ciò che serve all’ascoltatore per comprendere meglio la storia e connettersi con essa. Lo storyteller non è una figura neutrale, ma un attore stesso della storia che si immerge in essa e ne racconta i dettagli con una visione completa, ricca di dettagli. I migliori narratori cercano nei loro ricordi ed esperienze di vita un modo per raccontare il loro messaggio, e sono giornalisti, comunicatori, informatori. Ecco perché il tema centrale del Festival del Giornalismo unisce editori e brand, appassiona i fruitori e si candida a diventare un tema portante dei prossimi dieci anni. Per i media perché l’uniformità delle fonti toglie originalità ai pezzi e uniforma, se vogliamo banalizza, le informazioni. Per i brand, perché i fruitori si sono abituati ad un tipo di comunicazione che ingaggi, che emozioni, che sia “storia”. Chi resta indietro è destinato a non comunicare. Chi fa il furbo è destinato alla fuffa e alla propaganda. Ma lo Storytelling è un’altra cosa.

A Perugia, al Festival del Giornalismo, e per i prossimi anni.