Lo spettro delle trivelle in alcuni tra i posti più belli d’Italia stenta a scomparire. Neppure l’ultimo bollettino ufficiale pubblicato dal Mise accenna a un dietrofront per la salvaguardia di luoghi dall’inestimabile patrimonio naturale: da Santa Maria di Leuca, passando per Pantelleria fino al largo di Venezia. Sono solo alcuni dei permessi rilasciati alle società petrolifere per la ricerca sui fondali e sulla terraferma. Salve, per ora, le isole Tremiti grazie a un’istanza di rinuncia dell’ultim’ora presentata dalla società Petroceltic al Mise con la quale la società petrolifera alza bandiera bianca in merito al permesso di ricerca nel Mare Adriatico meridionale.
Nei mari e nelle campagne del Belpaese c’è un grande corsa verso la ricerche dell’oro nero. E le trivelle fanno paura. Leggendo il documento del ministero dello Sviluppo Economico, che lo scorso 31 dicembre ha assegnato le concessioni alle ricerche e allo sfruttamento, ci si trova dinanzi a 90 permessi di ricerca per la terraferma e 24 per i fondali marini. Oltre alle 143 concessioni per coltivazioni di idrocarburi già individuati a terra e 69 in mare. Se già i numeri potrebbero fare paura, localizzare sulla mappa le aree destinate a tali ricerche crea quantomeno sgomento. Le lobby petrolifere hanno preso d’assalto alcuni tra i territori italiani che tutto il mondo ci invidia. Da oggi però uno in meno: le isole Tremiti, uno dei gioielli dell’Adriatico, arcipelago dalle infinite sfaccettature e ricco di biodiversità marine. Per la loro incantevole ed incontaminata bellezza costituiscono un piccolo angolo di paradiso, in cui la limpidezza del mare, i fondali variopinti e puliti, il clima mite, l’aria pura e le coste ricche di cale e grotte suggestive, ergono questi luoghi a straordinario santuario della natura. E il Governo italiano lo stava svendendo a prezzi perlomeno imbarazzanti. Per le ricerche di fronte alle isole Tremiti, infatti, il Ministro Federica Guidi, titolare del Mise, aveva concesso un permesso alla Petroceltic Italia srl per un canone annuo di 5 euro e 16 centesimi al chilometro quadrato. Un totale di 373,7 chilometri quadrati per un ricavo di 1.928,292 euro. Neppure duemila euro l’anno per un pezzo di mare dal valore inestimabile.
Solo una rinuncia dell’ultima ora (9 febbraio 2016) della stessa società petrolifera ha salvato le isole Tremiti. Dall’istanza presentata al Ministero dello Sviluppo Economico si leggono le motivazioni che hanno portato a tale scelta: “Essendo trascorsi 9 anni dalla presentazione dell’Istanza – periodo durante il quale si è registrato un significativo cambiamento delle condizioni del mercato mondiale – Petroceltic Italia ha visto venir meno l’interesse minerario al predetto permesso“. Alla base di questa rinuncia vi è sicuramente il calo del greggio, ma anche le condizioni economiche non proprio rosee in cui versa la società petrolifera irlandese (l’utile nel 2013 era stato di 77 milioni, mentre l’anno scorso è sceso a 3,2 milioni di sterline) e l’impossibilità, quindi, di mantenere l’intero portafoglio di permessi disseminati in diverse aree del mondo.

E se la popolazione delle isole Tremiti torna a gioire per aver allontanato lo spauracchio delle trivelle, nei territori dove i permessi di ricerca sono ancora in vigore si continuano ad analizzare i fattori di rischio. Una nota dolente sarà rappresentata senza dubbio dall’impatto ambientale. Le ricerche verranno, infatti, eseguite con la discussa tecnica di ispezione dei fondali marini definita “airgun”. Spari fortissimi e continui, ogni 5-10 minuti, di aria compressa che mandano onde riflesse da cui estrarre dati sulla composizione del sottosuolo. Spari che, però, risultano dannosi. Gli studi del Norvegian Institute of Marine Research testimoniano, infatti, una diminuzione del pescato anche del 50 per cento intorno ad una sorgente sonora che utilizza airgun. Senza contare i danni e le alterazioni comportamentali, talvolta letali, in specie marine assai diverse, in particolare per i cetacei, fino a chilometri di distanza. Proprio lungo la costa garganica, nel dicembre del 2009, in prossimità della Laguna di Varano nove capodogli si sono avvicinati alla costa in maniera anomala. Sette di questi si sono spiaggiati mentre solo due sono riusciti a riprendere il largo. Gli esemplari spiaggiati, sottoposti ad esami specifici per individuarne le cause, hanno mostrato una sindrome embolica, causata da una risalita rapida in superficie (paragonabile a quella che colpisce i sub), probabilmente causata dall’esposizione ad una serie di forti impatti sonori.
Per tutti questi motivi, regioni e ambientalisti sono furibondi contro il governo. Emblematica la posizione di Giulia Maria Crespi, presidente onorario del FAI – Fondo Ambiente Italiano, nella lettera al direttore su Repubblica del 12 gennaio scorso: “Come possiamo noi italiani votare e avere fiducia in un governo che non soltanto si contraddice nelle sue dichiarazioni, ma addirittura avalla norme per la distruzione del capitale più prezioso posseduto dall’Italia? Un unicum al mondo per la sua bellezza, le sue arti e la completezza dei suoi paesaggi, nonché per le ricchezze che una volta contenevano i suoi mari“. Oltre al FAI, anche Legambiente e Wwf contestano la decisione del governo marcandola come inaccettabile e incomprensibile. Le trivelle non sono la strada giusta.

Con lo stop alle autorizzazioni per le ricerche di idrocarburi in mare entro le 12 miglia dalla costa, il Ministro dello Sviluppo Economico sembra aver fatto un primo passo indietro, che però non fa cantare vittoria. Anzi. Il popolo No-Triv sembra più determinato che mai e deciso a battere la strada referendaria. I quesiti referendari proposti erano inizialmente sei. In un primo tempo l’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione li aveva accolti tutti. Ma con l’introduzione da parte del Governo di una serie di norme in materia all’interno della legge di stabilità, la Cassazione ha dovuto nuovamente valutare i referendum e a quel punto ne ha ritenuto ammissibile solo uno: il quesito riguarda, nello specifico, la norma che prevede che i permessi e le concessioni già rilasciati abbiano la “durata della vita utile del giacimento”. L’esame della Corte Costituzionale ha confermato l’ammissibilità solo di questo referendum, per l’abrogazione della norma. A detta di governatori e associazioni ambientaliste, le urne sono l’unica via per evitare che lo Stato decida in solitudine senza rispettare la volontà dei territori.
Al Governo non resta che fare chiarezza sulle propria volontà, se continuare con una strategia pro-fossili o prendere finalmente la via maestra di un piano energetico che punti alla decarbonizzazione dell’economia. Le scelte energetiche, per i loro importantissimi effetti che hanno sul clima, non possono essere gestite con norme spot contraddittorie. Meritano, al contrario, di essere inserite in un quadro più ampio. Anche per una mera questione di coerenza, visti gli impegni presi alla Cop 21 di Parigi. Non da ultimo, si stima che le riserve petrolifere individuate nei nostri fondali coprirebbero il fabbisogno nazionale di petrolio solo per 7 settimane, mentre settori come la pesca e il turismo sono un traino prezioso per l’economia del Paese.