L’ ultimo atto di liberalizzazione in Italia risale a pochi anni fa, quando a firma Bersani smettemmo di pagare il pizzo sulla ricarica alle compagnie telefoniche.
Da allora, 20 anni di Governi hanno timidamente cercato di liberalizzare farmacie, tassisti e poco altro, con risultati deprimenti.
Dalle interviste ascoltate in questi giorni in televisione e in particolar modo su Radio24, i rappresentanti delle varie Associazioni di Categoria rivendicano trasparenza e regole, che di fatto però, già esistono. Una delibera del Comune di Milano dello scorso luglio fu emanata su misura per Uber. E onestamente, pensare che un Consiglio Comunale legiferi su richiesta di un’Associazione di Categoria per far fronte a un concorrente unico mi sembra quanto meno sui generis.
Perchè questo è un Paese sui generis
Diviso in due dalle teorie sulle startup e sulle smartcities da una parte, è di fatto architettato e regolato dalle Categorie che pretendono regimi di monopolio assoluto: soggetti politici che inadeguati a seguire il passo dei tempi hanno permesso negli anni una “tratta delle licenze” più o meno sottobanco, non permettendo nemmeno al Professor Monti di fare una timida bonifica e puntare sull’aggiornamento dei sistemi e sulle nuove tecnologie (pur garantendo di fatto il monopolio ai soliti soggetti).
Perchè di questo hanno paura i tassisti: di perdere giustamente la loro pensione travestita da licenza che venderanno il giorno che smetteranno di lavorare e anzichè rivolgere la loro critica alla politica e alle Associazioni che hanno legittimato questo sistema senza futuro, se la prendono con il futuro.
Lo ha raccontato bene Massimo Russo su Wired.
E così è bastata un’app per mandare in tilt il rugginoso sistema dei tassisti, dei loro call center sempre ingolfati nelle ore di punta e nei giorni di Fiere. Un sistema che stride terribilmente non solo con la grande diffusione di devices, ma anche con la richiesta di velocità e di customizzazione che ogni utente sempre di più richiede ai servizi.
Esattamente alla stregua degli albergatori che da 15 anni usufruiscono di piattaforme che permettono loro una visibilità che nessun sito privato avrebbe mai loro garantito, con una traduzione in 40 lingue diverse, un sistema di ranking mondiale che sebbene spesso criticato, di fatto crea anche interazione, commenti, regalando PUBBLICITA’ orizzontale e democratica tanto al piccolo bed&breakfast quanto alla grossa catena multinazionale.
E ancora una volta, le Associazioni di Categoria per legittimare la loro esistenza, si appellano alla “concorrenza sleale” e al richiamo delle regole, per il semplice fatto che per abitare in quelle case in cui investe solo il padrone di casa, questi richiede garanzia di esclusiva. Ovvero, proprio quelle regole e quella trasparenza che i primi invocano per sè, ma non vogliono ricambiare.
Gli hotel vorrebbero in pratica potersi fare pubblicità sui maggiori portali turistici e poi essere contattati direttamente per un prezzo migliore rispetto a quello riportato sul sito, bypassando così padrone di casa ed affitto.
La “concorrenza sleale” è un concetto troppo abusato da chi non ha le capacità intellettuali di pensare al cambiamento nei metodi e alla competizione sui mercati. Di chi pensa che fare il casellante o l’operatore di call center siano lavoro degni di questo secolo e non concepiscono un’evoluzione nei servizi ma anche nella dignità delle Persone.
Esattamente come succede nei Distretti del Tessile e dei divani, dove per anni abbiamo creato un sistema di schiavitù (l’ho raccontato anche dopo i recenti morti nei capannoni cinesi di proprietà di Italiani), ed oggi che gli schiavi si sono resi autonomi e lavorano per i grandi brand a prezzi ridotti, invochiamo la “concorrenza sleale”.