Splendida la notte di Berlino, tiepida. Spicchio di luna estiva su Pariserplatz. Vanno al passo i cavalli bronzei sulla porta di Brandeburgo, trasportando la dea della Vittoria al suono dolce di In einem kuhlen Grunde.

Berlino, estate 1936. Le Olimpiadi sono alle porte. Goebbels ha avuto ragione delle resistenze iniziali di Hitler e della sua Hitlerjugend e tutto è pronto per lasciare il resto del mondo a bocca aperta davanti alla potenza e alla maestosità del Reich. Ai vertici della complessa e ambiziosa organizzazione dell’evento c’è un uomo, anzi un soldato: Wolfgang Fürstner. A poche settimane dalla cerimonia inaugurale, però, un giornale denuncia le sue origini ebraiche e l’immediata conseguenza è la destituzione dall’incarico. Da deus ex machina con pieni poteri, Fürstner si ritrova in un angolo: è rispettato dai veterani che hanno combattuto con lui nella Prima guerra mondiale ma deve ora subire l’umiliazione delle giovani leve naziste e solo l’intervento di un ex commilitone gli permette di restare al Villaggio Olimpico, sia pure con un ruolo di secondo piano. A Berlino accorrono giornalisti da ogni parte del mondo e le telecamere fortemente volute dal Furhrer e da Leni Riefenstahl portano le Olimpiadi per la prima volta sul piccolo schermo. E mentre Jesse Owens entra nella storia con le sue quattro medaglie d’oro, il maratoneta coreano Sohn Kitei è costretto a vincere per il Giappone e si disputa Austria-Perù, che Eduardo Galeano definirà “la partita di calcio più emozionante di tutti i tempi”, Fürstner si aggira come uno spettro in una città vestita a festa. Non riconosce più il Paese che ama, né la donna che ha sposato, e forse nemmeno se stesso. Nel romanzo, scritto a quattro mani con Federico Buffa, Paolo Frusca ci racconta la parabola di un uomo, di una capitale e di un Paese sull’orlo dell’abisso.

Paolo Frusca vive felicemente in esilio a Vienna e coltiva la passione per la Storia e per il Brescia (inteso come squadra di calcio). Nel 2010 ha pubblicato per Mondadori “Urania Phoxgen!” scritto a quattro mani con Italo Bonera. Per e con Federico Buffa ha scritto a otto mani il testo teatrale “Le Olimpiadi del 1936. Abbiamo scelto lui per farci raccontare gli aneddoti di questa collaborazione e un’Olimpiade passata alla storia. Un romanzo di sport, passione e ferocia.

Fonte: Paolo Frusca
Credits: Paolo Frusca

Ciao Paolo, come hai conosciuto Federico Buffa, come nasce questa collaborazione?

Conservavo in un cassetto quattro cartelle in croce su Matthias “Cartavelina” Sindelar, calciatore austriaco degli anni trenta. Le avevo scritte, credo nel secolo scorso, senza saper bene che farne, solo per il fascino che aveva su di me questa figura di sportivo. Vidi in televisione “Federico buffa racconta Arpad Weisz” e capii a cosa – forse – potessero servire quei fogli ingialliti: destini simili, Sindelar e l’allenatore ungherese, così pensai a un “Federico Buffa racconta Sindelar”. Li mandai a Federico, più o meno con un piccione viaggiatore. Un tentativo. Non sapevo nemmeno esattamente dove scrivergli! Comunque gli arrivarono, non so ancora come, e gli piacquero. Iniziammo a collaborare: dapprima poche mie righe nelle sue “Storie mondiali” in televisione, poi la sua proposta di partecipare, con Emilio Russo e Jvan Sica, alla stesura del testo teatrale sulle olimpiadi e, da quel copione, l’idea del romanzo. Fra parentesi, su Sindelar non si fece poi più nulla. Ma non ho perso la speranza. So che anche Federico adora la storia drammatica e grandiosa di “Cartavelina”.

Fonte: Paolo Fusca
Credits: Paolo Fusca

Per scrivere un romanzo come questo avrai dovuto studiare molto, cosa ti appassiona di più della storia di Berlino 1936?

Mi ha molto colpito, più che appassionato, una vicenda che per me ha dell’incredibile e che si è temporalmente riversata da quei Giochi a quelli del 1972 a Monaco di Baviera: il fatto cioè che Avery Brundage, che era nel 1936 ai vertici della organizzazione olimpica USA e che tanto si battè per non boicottare i Giochi di Hitler (appare anche nel romanzo, marginalmente) nel 1972, trenta anni dopo, era ai vertici del CIO e fu proprio a lui a imporre di proseguire le Olimpiadi nonostante il massacro che era avvenuto.

Si può dire che lo sport e le manifestazioni sportive siano cambiate da quell’evento? Che l’Olimpiade del ’36 ha alzato l’asta dell’organizzazione per sempre?

In questa risposta cito completamente Federico: sì. Assolutamente. In quelle olimpiadi lo Sport ha perso per sempre la propria verginità, è morto De Coubertin ed è nato forse lo Sport moderno, come lo intendiamo oggi, con pregi e difetti, evidenti gli uni e gli altri, prima fra tutti la strumentalizzazione politica dello Sport da parte dei Governi.

fonte: it.wikipedia.com
Fonte: it.wikipedia.com

Dove hai raccolto le informazioni e gli aneddoti che leggiamo nel romanzo?

Ho trovato, con qualche peripezia, una rara biografia di Fürstner, che ci è servita come fonte per le informazioni base. Per il resto, bastano due o tre sere in compagnia di Federico per ritrovarsi l’agenda piena di aneddoti incredibili. Lui ha una capacità quasi sovrannaturale di creare collegamenti fra un avvenimento e l’altro, un periodo storico e l’altro, un argomento e l’altro, mescolando suggestioni, emozioni e informazioni. Scrive esattamente nel modo come racconta. Questo rende il lavorare con lui paradossalmente molto agevole. Amplifica gli spazi di manovra del co-scrittore, allarga gli orizzonti. Posso farti un esempio cestistico? È come giocare al fianco di Kobe Bryant. Basta mettersi vicino al canestro e prima o poi il pallone ti arriva!

Jesse Owens e Sohn Kitei: racconteresti ai nostri lettori queste due storie e quanto di romanzato c’è già nelle loro vite reali?

Davvero vite da romanzo. La tragedia di vincere per un “Potere” che si sente estraneo o addirittura ostile e contribuire così a glorificarlo. Sohn rappresenta perfettamente questa sensazione, anche plasticamente su quel podio, ma mi vengono in mente altri esempi simili: il gruppo di cestisti lituani che vince la medaglia d’oro del basket a Seoul 1988 (proprio a Seoul!) vestendo la maglia di un’Unione Sovietica che di lì a poco sarebbe evaporata, o i bosniaci e i croati che vincono a Roma, nel giugno del 1991, gli ultimi europei di Basket della fantastica Jugoslavia, e l’unico giocatore sloveno di quella nazionale abbandona la squadra quasi durante il riscaldamento della prima partita, perché giunge notizia che ci sono carrarmati per le strade di Lubiana. Incredibile.

Anche Jesse Owens, peraltro, al di là della bandiera che sventolava sul podio di Berlino e che forse sentiva anche sua, dovette avere la certezza di non essere esattamente compreso ed amato in quegli Stati Uniti d’America, Paese nel quale, anche da pluri-olimpionico, non gli era consentito di soggiornare negli stessi alberghi dei bianchi, o di prendere l’ascensore con loro. E poi la sua ingiusta squalifica e l’arrabattarsi facendo gare contro cavalli e cani. Inimmaginabile.

 

In “L’ultima estate di Berlino” c’è un capitolo dedicato alla partita di calcio più emozionante di tutti i tempi. Ci racconti questo passaggio e ci dici per te qual è stata, invece la partita più emozionante (so che sei tifoso del Brescia)

Scriviamo di un Austria-Perù entrata nella storia delle olimpiadi, quarto di finale. Partita e dopo-partita avvolti nella nebbia più assoluta e leggendaria. I “Peruani” sono uno squadrone, ma gli Austriaci, studenti dilettanti, niente a che vedere col “Wunderteam” di quegli anni, vanno avanti due zero. Nel finale si scatena la rumba del “rodillo negro”, soprannome dell’attacco sudamericano: in cinque minuti rimettono in piedi la partita. Due a due. Intervallo prima dei supplementari. Qui succede qualcosa. Ma non si è mai capito esattamente. Fonti discordanti: invasione di campo di alcuni tifosi latinoamericani. Per festeggiare. Pare. Ma un paio di giocatori austriaci vengono malmenati. Pare. Uno non può rientrare in campo. Il regolamento non prevede cambi.

Undici contro dieci, i peruviani vincono facile. 4-2.

Un giornalista inglese racconta di mille (mille?) tifosi sudamericani che avrebbero invaso il campo armati di sassi, bastoni e anche un revolver. Bugia che fa il pari con la fantomatica presenza in tribuna di un minaccioso Adolf Hitler. Chissà cosa veramente accadde. Comunque, gli austriaci presentano ricorso. I Peruviani arrivano in ritardo di un’ora e mezza alla riunione che deciderà della questione e non possono opporre la loro memoria difensiva: l’udienza è già terminata. Sentenza: ripetizione della partita. Offesi, i peruviani ritirano tutta la delegazione. Ordine diretto del presidente Benavides. Disordini a Lima, sassate contro l’ambasciata tedesca. Giocatori accolti al rientro con medaglia d’oro a celebrare “i campioni olimpici del 1936”. Iniziano le voci: la ripetizione della partita fu decisione personale di Hitler che non avrebbe sopportato la sconfitta dei suoi austriaci da parte di una squadra di “mezzosangue”. La leggenda, tramandata, si trascina fino ai giorni nostri, il piccolo Perù che umilia un dittatore. Federico dice che a Lima i tassisti ancora la raccontano! Sceneggiatura per un film, purtroppo non vera!

La mia partita più emozionante? Spero la “prossima”! Battute a parte, credo sia uno dei segreti del successo del calcio: inizia una partita della tua squadra e tu credi, speri che potrebbe diventare la più emozionante. E questo è travolgente. Passione vera. Proprio devo sceglierne una? Ti sembrerà strano: Brescia- Bari, spareggio per restare in serie A, giugno 1932! Partita ovviamente non vista, della quale sapevo e so tuttora pochissimo ma che mi emoziona molto a posteriori, perché sulla panchina del Bari sedeva proprio quell’Arpad Weisz raccontato da Federico Buffa. Arpad Weisz e il mio Brescia. Per me è come un cerchio che si chiude.

L’Ultima estate di Berlino è più la storia di un evento sportivo, la parabola di un uomo o di un Paese sull’orlo dell’abisso?

Tutte queste tre cose insieme, e anche altro: crediamo Fürstner sia una figura che esce dalla pur perfetta ed evocativa cornice di quei Giochi, di quella dittatura, di quella persecuzione. Una figura che assume tratti di universalità. Una sorta di personaggio “shakespeariano”: il singolo, impotente, che viene travolto dalla ineluttabilità degli eventi, da un sistema di Potere più grande di lui. Tutto ciò meritava uno sviluppo oltre il palcoscenico. Per Fürstner la questione viene aggravata dalla consapevolezza di avere contribuito, in maniera non marginale, alla creazione del meccanismo che lo sta stritolando. Quasi grandezza da tragedia greca. Noi volevamo mettere in evidenza questo aspetto e speriamo di esserci riusciti, anche con la creazione del personaggio immaginario del giornalista americano, tanto entusiasta quanto Fürstner è avvitato su se stesso, tanto ottimista quanto Fürstner è sprofondato nella tragicità della propria situazione. Ci serviva un contrasto e speriamo di averlo trovato. Anche a livello di scrittura, stilisticamente.

Fonte: ilpost.it ( Photo/File)
Fonte: ilpost.it
( Photo/File)

Il tuo personaggio preferito di questo romanzo.

Troppo facile dire Carl Lutz Long. Allora io scelgo Wilhelm Leichum, modesto, umile ma grandissimo atleta lui pure. Il gesto di Lutz, il suggerimento a Owens su come qualificarsi per la finale del salto in lungo, lo fa scendere dal podio. E anche lui, come Lutz, finisce tragicamente, in Russia, nel 1941. Ma non vorrei dimenticare il lottatore di greco-romana Werner Seelebinder, al di là di ogni dubbio, l’unico vero oppositore della dittatura.

Fonte: lettera43.it
Fonte: lettera43.it

Sappiamo della tua grande passione per la storia e per il calcio. Pensi che in un certo le due cose siano collegate?

Domanda complicata. Senza voler dare troppo importanza al calcio, credo però che chiunque volesse studiare la Storia del ‘900 dovrà certamente buttare un occhio di riguardo sul calcio, che del ‘900 è a tutti gli effetti figlio.

Perché Paolo Frusca si definisce “esiliato a Vienna”?

Diciamo esilio dorato, venti anni fa fu colpa di un fatale mix di affetti e lavoro, ora poi gli affetti son diventati tre!

A quando un libro a due mani?

Mah? Dici che proprio devo?

L’intersecarsi delle vite umane con il contesto storico è irripetibile, per fortuna non succederà mai più una cosa del genere. Per sottolineare questa unicità ho scelto di raccontare la storia di due oppressioni, quella di Jesse Owens, un afroamericano che vince quattro ori e non riceve dal presidente degli Stati Uniti nemmeno un telegramma di felicitazioni, e quella di Sohn Kee-chung, un maratoneta coreano costretto a correre sotto la bandiera giapponese. La loro è stata una battaglia magnifica contro tutto e contro tutti.