Omosessuali. Matrimonio. Figli. Diritti. Queste sono parole che se prese singolarmente non creano scompiglio, ma se vengono unite e intrecciate tra di loro allora fanno paura al’Italia. Fanno rumore. Fanno protesta.
Basta pensare alla manifestazione #SvegliatItalia che ha preso luogo lo scorso 23 gennaio in ben 98 città della Penisola, con l’obiettivo di “sensibilizzare l’opinione pubblica e far capire al governo che le unioni civili non possono più essere ritardate”. Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e Mit (Movimento identità transessuale), organizzatori dell’evento, hanno deciso di giocare d’anticipo rispetto al Family Day, che si tiene proprio oggi 30 gennaio.
Centinaia e migliaia di persone, omosessuali e non, scese in piazza per gridare a gran voce la voglia di avere dei diritti, di essere riconosciti e supportati dallo Stato italiano, più volte incitato a essere civile.
L’Italia, infatti, è rimasto l’unico paese dell’Europa Occidentale che non ha mai fatto una legge per regolamentare le unioni civili. Eppure ci troviamo circondati da tantissimi Stati che a riguardo hanno già dato il loro parere, prima fra tutti l’Olanda che, già nel lontano 2001, ha approvato il matrimonio civile per le coppie gay, prevedendo per loro gli stessi diritti e doveri delle coppie etero, compresa l’adozione. E poi, in ordine cronologico, anche la Danimarca, la Finlandia, il Belgio, la Spagna, la Norvegia, la Svezia, il Portogallo, l’Islanda, la Francia, la Gran Bretagna, il Lussemburgo, la Slovenia, e ultima la cattolicissima Irlanda che ha approvato le unioni di fatto con un referendum.
Come appare chiaro, l’Italia è l’unico dei sei paesi fondatori dell’Unione Europea a non riconoscere né le unioni civili né i matrimoni per gli omosessuali.

In Italia la questione del matrimonio gay o delle unioni civili non è citata nella Costituzione, a differenza ad esempio di altri paesi europei come la Polonia e la Bulgaria in cui il matrimonio omosessuale è esplicitamente vietato. Nel nostro Bel Paese si discute da quasi trent’anni l’approvazione di una legge che preveda una forma di riconoscimento per le unioni omosessuali.
La prima proposta di legge sulle unioni civili fu presentata nel 1988 dalla deputata socialista Alma Agata Cappiello, ma non fu mai discussa. Successivamente, nel 1994, più precisamente l’8 febbraio, il Parlamento Europeo aveva approvato una risoluzione che invitava la Commissione Europea a rimuovere “gli ostacoli frapposti al matrimonio di coppie omosessuali ovvero a un istituto giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e consentendo la registrazione delle unioni”. Poi ancora, si tornò sull’argomento con il Governo Prodi nel 2007, e con il Governo Letta nel 2014. Sempre dei buchi nell’acqua.
A che punto siamo quindi? Fermi al Medioevo, come se secoli di storia, di evoluzione, di progresso non avessero neanche lontanamente sfiorato la realtà italiana.
Ma cosa ha sempre impedito al nostro Bel Paese di seguire le orme degli altri Stati Europei approvando una volta per tutte una legge sulle unioni civili? Forse una cultura troppo clericale e cristiana? Una politica troppo frastagliate e sempre in disaccordo? Un arretratezza sociale, culturale e antropologica?
È ora che l’Italia si svegli.

Il panorama nazionale, diviso in due fazioni, si sta inoltre scontrando da svariate settimane su un’altra questione importantissima, inerente a quanto fin qui trattato: la step-child adoption. Sicuramente ne avrete sentito parlare, e ancora molto più probabilmente avrete dato le vostre opinioni senza sapere molto sull’argomento. Per cui iniziamo a fare chiarezza. Cos’è la step-child adoption?
Letteralmente il termine significa “adozione del figliastro”, è il meccanismo che permette a uno dei membri di una coppia di essere riconosciuto come genitore del figlio, biologico o adottivo, del compagno. Si tratta di una possibilità che il ddl Cirinnà sulle unioni civili prevede anche per le coppie omosessuali. Quindi la step-child adoption non è né una novità, né una prerogativa gay. Esiste in Italia fin dal 1983 (L. 184/1983) e permette, come detto, l’adozione del figlio del coniuge, con il consenso del genitore biologico, ma solo se l’adozione corrisponde all’interesse del figlio, che deve dare il consenso, se maggiore di 14 anni, o comunque esprimere la sua opinione, se di età tra i 12 e i 14. L’adozione non è automatica ma viene disposta dal Tribunale per i minorenni dopo un accurato screening sull’idoneità affettiva, la capacità educativa, la situazione personale ed economica, la salute e l’ambiente familiare di colui che chiede l’adozione.
Fino al 2007 l’adozione del figlio da parte del convivente era ammessa solo per le coppie sposate. Successivamente, il Tribunale per i minorenni di Milano prima e quello di Firenze poi hanno esteso questa facoltà anche ai conviventi eterosessuali, ritenendo che in entrambi i casi fosse interesse del minore, affinché oltre al rapporto affettivo ci fosse anche un rapporto giuridico, consistente in diritti ma, soprattutto, doveri. Soltanto nel 2014/2015, il Tribunale per i minorenni di Roma, in linea con le leggi europee, ha sancito che l’orientamento sessuale dell’adottante non costituisce in alcun modo un elemento d’ostacolo alla step-child adoption.
L’articolo 5 del ddl Cirinnà sulle unioni civili, attualmente in corso di votazione, prevede la stabilizzazione della norma appena citata, cioè quella che permette a una coppia omosessuale l’adozione del figlio biologico del partner. Nel caso però ci fossero eventuali modifiche all’art. 5 si andrebbe ad impedire alle coppie di fatto di godere di questo diritto, negando loro la possibilità di continuare a fruire di un istituto già esistente.
Ora, fermo restando che anche la sola discussione sull’adozione del figlio del partner è ancora, e a tutti gli effetti, un atto discriminatorio e insufficiente nei confronti di genitori omosessuali e figli, appare strano ascoltare un serie di argomentazioni contrarie irragionevoli. Ancora.
Il punto, però, è che attualmente sono migliaia i bambini ad avere già due madri o due padri, a vivere e crescere con loro. Questi bambini sono spesso nati all’estero grazie alla procreazione assistita eterologa, ma in Italia risultano figli solo del genitore naturale e, in caso di problemi o di decesso del genitore biologico, l’altro non ha alcun diritto e neanche nessun dovere nei suoi confronti. Per cui sono proprio le coppie di fatto a sentire il bisogno e la necessità dell’adozione in modo tale da tutelare i figli in mancanza di una legge che approvi le coppie formate da persone dello stesso sesso.
Ricordiamoci, però, che anche se si impedisce alle coppie omosessuali di essere genitori formalmente, non si potrà mai impedire loro di essere comunque genitori dei loro bambini. Di amarli e supportarli, sempre. Di combattere per la loro felicità. Non si potrà impedire ai genitori omosessuali di rimboccare le coperte ai loro bambini ogni sera, di preparare loro la colazione, il pranzo e la cena, di insegnare loro i valori fondamentali, l’educazione, il rispetto, il concetto di bene-male, i diritti e i doveri di ogni cittadino.
Ricordiamoci che questi bambini, questi ragazzi non smetteranno mai di esistere neppure se tutto il parlamento italiano votasse “no” alla step-child adoption. Continueranno a vivere con le loro due madri o i loro due padri, circondati dall’affetto di genitori e parenti. Cresceranno, diventeranno cittadini italiani a tutti gli effetti, costruiranno la società del domani, dove loro, anche se non salvaguardati dalla legge, saranno comunque una presenza reale.
Proviamo allora per un momento a mettere da parte tutta la questione “legale” e politica della cosa. Proviamo a mettere da parte leggi, disegni di legge, maggioranza, opposizione e quant’altro. Proviamo a concentrarci sulle persone. Sui loro diritti. Proviamo a mettere da parte il nostro cervello e ad ascoltare il cuore. Proviamo a metterci nei panni di quei soggetti deboli che lo Stato dovrebbe tutelare: i bambini.
Sì, perché in tutto questo dibattito-polverone ci siamo dimenticati una cosa fondamentale: non esiste il diritto di avere un figlio, ma esiste il diritto del minore ad avere una famiglia. Una famiglia e basta, sia essa “tradizionale” o “di fatto”.