“Quando ero giovane credevo in tre cose. Il marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite.” Una frase che può costituire tranquillamente la battuta di un film, magari pronunciata da un personaggio caustico e burbero, che nasconde dietro la dura corazza uno spesso velo di disincanto. Magari uno di quei tipi facili da incontrare in un film di Sergio Leone. O magari, proprio un tipo alla Sergio Leone. Sono parole regalate dal regista romano, un paio d’anni prima di morire, al grande critico e storico del cinema Noël Simsolo. Un aforisma che non rappresenta solo la summa del Leone regista, ma anche una conferma, se mai ce ne fosse bisogno: quest’uomo era nato per fare quel mestiere.

D’altronde, quando nasci da un padre pioniere della settima arte (Vincenzo, nome d’arte Roberto Roberti) e da una madre attrice (Bice Roberti), ti viene ben presto la voglia impellente di buttarti a capofitto dentro quel mondo di cui sin da piccolo hai respirato la magia. Sergio cresce artisticamente sotto l’ala protettiva di un cineasta a dir poco all’avanguardia, Mario Bonnard, di cui diventa aiuto-regista: vede all’opera i Fabrizi, i Sordi, i De Filippo, capisce come spaziare dalla commedia al dramma. Finisce però con l’innamorarsi, almeno all’inizio, di un filone peculiare, quello dei pepla, ed è proprio su un peplum, complice anche il destino, che appare la sua prima firma in calce: a causa della morte in corso d’opera di Bonnard, Leone completa la realizzazione, da co-regista, de Gli ultimi giorni di Pompei (1959). L’esordio in autonomia avviene appena due anni dopo, sempre con un peplum, Il colosso di Rodi.

Leone, a sinistra, in 'Ladri di biciclette' (1948)
Leone, a sinistra, in ‘Ladri di biciclette’ (1948)

Con l’esaurirsi della moda dei pepla e con un modello italiano che si scrolla di dosso gli ultimi residui della stagione neorealista per affidarsi a canoni e nomi nuovi (Fellini, Monicelli, Risi), Leone attua una scelta, quella di abbracciare il genere nobile per antonomasia e applicargli un filtro ad alto tasso di ironia, pur senza venir meno alla missione più importante: salvaguardare il concentrato di epica che John Ford e Howard Hawks avevano regalato agli occhi di quell’ancora giovane demiurgo. Ecco perchè, pur essendo Leone uno dei padri spirituali dello spaghetti-western, sarebbe più opportuno considerarlo come l’innovatore, tecnico, narrativo e poetico, di un intero genere.
Non sono solo le note divine di Morricone, nè il viso del giovane, sfiancato, Armonica. O ancora, il duello finale a tre Eastwood/Wallach/Van Cleef o il requiem per la rivoluzione messicana. É come se ogni centimetro di pellicola prodotto da Leone avesse una traccia, alle volte impercettibile, altre debordante, di respiro epico. Quell’epica imperfetta, sporca e realistica, che divenne suo indelebile marchio di fabbrica.

Leone insieme a Danny Aiello e Robert De Niro (1984)
Leone insieme a Danny Aiello e Robert De Niro (1984)

Uno dei pochi ad incutere soggezione, quasi timore, in Clint Eastwood, uno dei pochi a ricevere la dedica alla propria memoria da due registi hollywodiani diversi (Eastwood e Tarantino), Leone non era dotato di un carattere facile. Burbero, spietato, vendicativo. Come quando si arrabbiava con un attore e lo annichiliva con un “Io ti ho creato e io ti distruggo!“; o come quando punì Sam Peckinpah, colpevole di aver rifiutato la regia per Il mio nome è nessuno (poi diretto da Tonino Valerii), il cui nome appare come sfregio su una lapide, per decisione di Leone, che del film era il produttore.
Innumerevoli gli omaggi che il cinema, di genere e non, americano e non, ha proposto al suo modo di vedere le cose. Illimitati anche i modi per imitarlo.

Sul set di 'C'era una volta il West', insieme a Claudia Cardinale (1968)
Sul set di ‘C’era una volta il West’, insieme a Claudia Cardinale (1968)

Se n’è andato ad appena sessant’anni, piegato da un attacco di cuore, mentre iniziava a plasmare il suo ultimo sogno, raccontare l’assedio di Leningrado. Gli dei della celluloide, invece, vollero che il suo testamento artistico si chiudesse con un sorriso, quello sognante (o sognato) di Noodles/De Niro, nella fumeria d’oppio, in quello che è considerato uno dei primi cinque film della storia del cinema.

Ci manca e ci mancherà, quel nostalgico della dinamite.

[Ph. Credits: Tonino Delli Colli /Getty Images]