Nei campionati italiani di calcio nelle ultime settimane si è manifestato un paradosso: gli arbitri non sono arbitri del loro destino. Chissà se ci pensano mentre preparano il borsone prima di dirigere una partita qualunque su un qualunque campo italiano.
Accadeva e continua ad accadere: ragazzi insultati,aggrediti e picchiati per non aver concesso un rigore, ammesso che il rigore ci fosse. Dovrebbe essere sport, ma diventa cronaca. E l’Associazione Italiana Arbitri (AIA) è corsa ai ripari, dotandosi di un osservatorio per monitorare il fenomeno. Non esiste un organo simile negli altri Paesi, già questo fa capire quanto sia malato il nostro calcio.
Questione di mentalità: l’arbitro diventa il nemico sul quale sfogare frustrazioni e istinti animaleschi. I numeri sono impietosi: dalla stagione 2009-2010 a quella conclusa lo scorso giugno ci sono stati 2323 episodi di violenza. Fisica o morale subita dai direttori di gara. Duemilatrecentoventitre: forse scritto così fa ancora più effetto.
Il 3 novembre sulle nostre pagine abbiamo pubblicato e commentato la lettera del giovane arbitro, Luigi Rosato, vittima di un episodio di violenza nella Seconda Categoria pugliese.

Nell’Associazione dei fischietti italiani avanza anche l’ipotesi di scioperare in Serie A, per mandare un messaggio chiaro a personaggi che sono lontani anni luce dalla cultura sportiva, in categorie dove calciare un pallone dovrebbe essere un mero passatempo, il “giuoco” del calcio.
Nella sola stagione 2013-2014, centonove arbitri sono finiti in ospedale. Numeri da campi di battaglia.
Non siamo disposti a subire nuova violenza, possiamo anche arrivare a gesti concreti. Quali? Semplice, ci fermiamo a partire dalla Serie A“. Più che una minaccia, sembra una promessa del presidente dell’Aia, Marcello Nicchi.
Le aggressioni contro le “giacchette nere” sono un virus che andrebbe estirpato dalla Puglia alla Lombardia e i più a rischio sono i giovani come Luigi Rosato che dirigono gare di Seconda e Terza categoria (in quest’ultima non ci sono retrocessioni). Senza dimenticare le sfide nel settore giovanile, nei tornei amatoriali e nelle amichevoli.
Insomma, più che un campo di calcio, quello dell’arbitro è un campo minato.
Le regioni più a rischio, dati alla mano, sono Sicilia (98 aggressioni), Calabria, Campania, Veneto e Lombardia.
Serve una nuova cultura sportiva, partendo dall’alto: basta risentire certi frasi sprezzanti di alcuni presidenti e calciatori di A verso la categoria arbitrale oppure il putiferio scatenato per la direzione di Rocchi in Juve-Roma.

aggressione

Fatti ammirare come UOMO. Fatti onore come ARBITRO“. Questa era la frase di apertura del mio corso arbitri. Nel giro di una settimana sono stati aggrediti due miei colleghi, giovani arbitri di calcio. Uno di 17, l’altro di 18 anni. Ottobre è stato un mese da bollino rosso: 30 casi di violenza. Io non sono stato mai picchiato e sono stato fortunato, non bravo, perché vi assicuro, l’arbitraggio è uno sport meraviglioso e difficilissimo al tempo stesso. È la perfetta metafora della vita: tu solo che decidi e gli altri che ti osservano e giudicano se hai fatto bene o male.
Domenica durante una partita del campionato Giovanissimi, il padre di uno dei ragazzini in campo ha scavalcato la rete di recinzione e ha preso a ceffoni l’arbitro diciassettenne, mandandolo all’ospedale. Quella dei genitori che considerano i figli un prolungamento del proprio ego e si ergono a difensori del buon nome della casata contro qualunque autorità costituita – insegnante, vigile, arbitro – osi lederne il prestigio con decisioni inopinate: un votaccio, una multa, un rigore non dato. I cattivi esempi che si respirano in casa possono essere ribaltati da altri ambienti: la scuola, la squadra, la compagnia e, soprattutto, se stessi. Si nasce con il rispetto per gli altri già incorporato: il segreto sta nel non dimenticarsene quando si cresce.
Pierluigi Collina ha scritto: “Nessuno mi ha mai aggredito: sono stato fortunato“. Ecco, facciamo in modo che non sia più una questione di fortuna.