In Foxcatcher, dal principio alla fine dei suoi 130 minuti di durata, si percepisce distintamente odore di morte. Un alone lento e inesorabile di pessimismo traccia la superficie dell’opera diretta e fortemente voluta da Bennett Miller, un autore che ama narrare di perdenti: era per certi versi un perdente Truman Capote, lo era per altri il Billy Beane di Moneyball, lo sono senz’altro i protagonisti di quest’ultimo arrivato, uno dei grandi snobbati agli ultimi Oscar.
Basato sull’omonimo libro scritto da Mark Schultz e David Thomas, l’adattamento di Miller racconta la storia di due fratelli, David (Mark Ruffalo) e lo stesso Mark Schultz (Channing Tatum), entrambi medaglie d’oro olimpiche nella lotta libera a Los Angeles ’84. I due si preparano per i successivi giochi, quelli di Seul dell’88, quando nella loro vita irrompe il multimilionario John E. du Pont (Steve Carell): ornitologo, filantropo, patriota e (come si ama definire) allenatore di lotta. Du Pont pare volere offrire a Mark – reclutandolo nel proprio team di allenamento, Foxcatcher – la chance di affrancarsi dalla perenne ombra del fratello maggiore, il quale, dal canto suo, cerca di rimanere distante dalla sfera d’influenza dell’uomo. Che ben presto inizia a manifestare segni di squilibrio mentale, provocato da costante paranoia.
Foxcatcher ha l’umiltà e al tempo stesso il respiro del grande cinema. Prendendo le mosse da una storia prettamente basata sullo sport, e per di più vera, l’opera di Miller riesce a dominare il soggetto in questione e a configurarsi come una vicenda dalle varie sfumature: al contrario di quanto si osservava in Moneyball, qui il percorso sportivo dei protagonisti appare infatti ben poco interessante, anzi quasi pretestuoso, dinnanzi alla parabola umana dai contorni tragici. Eppure saranno proprio i risultati – conseguiti o meno dai fratelli Schultz – a determinare gli esiti, al netto della follia del mentore du Pont, delle vite dei tre.
Dotato di una fotografia d’alta scuola (Greig Fraser), che spazia da cieli plumbei a intensi primi piani, Foxcatcher riesce ad andare oltre la semplice timeline che è spesso causa della prevedibilità delle opere incentrate sullo sport. Sorprende inoltre la cura del dettaglio adottata da Miller, non tanto a proposito della veridicità dei fatti narrati, quanto per l’ambientazione: la scenografia e i costumi sono un trionfo di tute in acetato, sneaker vintage e acconciature d’annata, che ci fa precipitare disinvoltamente nei reaganiani 80’s americani.
Con gli USA ancora in guerra fredda e col cervello bacato dalla malattia, il John E. du Pont tratteggiato da un sublime Steve Carell – a cui quest’anno è stato scippato l’Oscar – è pietrificante: allucinato, calcolatore, con principi di complesso edipico e con le sue ossessioni, quelle di una vita da non protagonista, quelle che lo fanno sembrare un bambinone in estasi quando i suoi ragazzi cantano in coro il suo nome. Carell si fa catalizzatore di tutto il senso di inquietudine espresso dalla pellicola: in tal senso sono funzionali anche i silenzi, propiziati da un’intelligente colonna sonora e accentuati dall’efficacia visiva di alcune sequenze. É così che si osserva Channing Tatum scorgere l’orizzonte dalla finestra e ci sembra di guardare il Jack Nicholson di Shining.
E se l’ambiguo rapporto Mark/du Pont è essenziale per l’evolversi della vicenda (il vero Mark Schultz proprio per questo rinnegherà in parte il film), altrettanto vibrante e interessante è quello tra i fratelli Schultz, incorniciato dalle splendide prove di Tatum e Ruffalo, in grado di conferire alla dialettica familiare narrata buone dosi di forza e sincere emozioni. Esemplare e magnificamente girata e interpretata la scena nella camera d’albergo successiva alla sconfitta di Mark agli open.
Ci saranno dei punti in cui la palpebra si farà un po’ più pesante ma tenete duro: Foxcatcher vi condurrà verso un epilogo amaro e pessimista, senz’altro eccellente, come il livello di tutto il film. Ancora una volta: ben fatto, Bennett Mller.
[Ph. Credits: Greig Fraser]