“And to the six million who can’t be watching this among the one billion watching this telecast tonight. Thank you“. Al pari del suo film, Schindler’s List, così poco spielberghiano eppure così intimo, il discorso con cui Steven Spielberg ritira l’Oscar il 21 marzo 1994 per il miglior film e la regia è emozionante ed evocativo. Dopo vent’anni vissuti da signore della fantascienza, Spielberg omaggia Oskar Schindler, rifiuta ogni compenso (“Sarebbero stati soldi sporchi“, dichiara) e rispolvera una frase meravigliosa: “Chiunque salva una vita salva il mondo intero“. Quello che però il regista di origine ebrea non può sapere è che alla fine di quell’anno, il mondo non sarà più lo stesso. Per una moltitudine di motivi.
Non sarà più lo stesso, per esempio, uno dei più grandi paesi del mondo, il Sudafrica: dopo oltre un secolo di storia controversa segnata dalla vergogna dell’apartheid, si tengono le prime elezioni a suffragio universale, vinte prevedibilmente da Nelson Mandela, uomo che rappresenta incredibilmente bene l’accidentato percorso della nazione arcobaleno. Non saranno certo più gli stessi lo sport e i motori, che vivono un anno segnato dalla tragica morte di Ayrton Senna, avvenuta il 1° maggio durante il Gran Premio di San Marino, il giorno dopo un altro schianto fatale, quello dell’austriaco Roland Ratzenberger, sempre sul tracciato di Imola. Non sarà poi più la stessa l’Italia: prima della cocente sconfitta ai mondiali americani, per mano di un Brasile premiato di un iconico errore del Divin Codino, assistiamo alla discesa in campo di un Cavaliere desideroso di mettere in atto una rivoluzione liberale. In qualche modo, Silvio Berlusconi arriverà altre due volte al Potere e per oltre vent’anni segnerà la vita politica del paese, che nel frattempo sembra destarsi da un sogno lungo quasi quarant’anni fatto di benessere e anni di piombo.

Per arrivare poi a noi, sarà soprattutto il cinema a non essere più lo stesso. Per colpa di un 31enne ragazzo di Knoxville che pare venuto fuori da un cartoon allucinato: si chiama Quentin Tarantino, adora il cinema di genere (dall’asiatico all’italiano) e il suo Pulp Fiction rivoluzionerà il modo di strutturare un film e vivere il cinema, rendendo obsoleto il concetto di flashback e facendosi beffe del dio Crono. Sarà anche per questo che in pochi comprendono appieno la portata della sua operazione: anzi, quando a Cannes la giuria si azzarda ad assegnargli la Palma d’oro, un coro di insulti si dirige verso Tarantino, che dal canto suo risponde con il dito medio più opportuno della storia del cinema.
Nell’anno in cui in TV fa la sua apparizione il fenomeno Friends, non c’è però solo Pulp Fiction: a segnare infatti il 1994 – e far la parte del leone ai successivi Oscar – è il Forrest Gump di Robert Zemeckis. Il suo protagonista, interpretato da Tom Hanks (alla seconda statuetta dopo Philadelphia), attraversa di corsa trent’anni di storia americana, in cui trovano spazio miti come Elvis Presley e tragedie come il Vietnam. Di portata forse anche maggiore è il successo che raccoglierà Il re leone, Oscar come film d’animazione e storia d’amore paterno che ancora oggi non manca di commuovere il mondo. Anche per merito, nel nostro caso, del sopraffino doppiaggio di Vittorio Gassman (Mufasa) e Tullio Solenghi (Scar).

Un’ampia schiera di opere fuori dal’ordinario impreziosisce poi un’annata magari priva di kolossal in senso classico ma non certo di film da ricordare: come il Leon di Luc Besson, con Jean Reno nel ruolo della vita, affiancato da una tredicenne d’eccezione, Natalie Portman. O Le ali della libertà, primo frutto della collaborazione tra Frank Darabont e Stephen King, con Morgan Freeman e Tim Robbins coppia affiatata e d’alta scuola. O come Una pura formalità, forse il vero capolavoro di Tornatore, sigillato da un magnifico duello senza esclusione di colpi Depardieu-Polanski, stavolta in veste attoriale. Alla categoria cult si iscrivono invece Il corvo (che costa la vita a Brandon Lee), The Mask (che lancia definitivamente il talento istrionico di Jim Carrey), Crooklyn di Spike Lee e Once were warriors di Lee Tamahori. Sempre al 1994 risale la nascita di un tormentone che viviamo anche oggi: per Buon compleanno Mr. Grape, il nemmeno ventenne 20enne Leonardo DiCaprio riceve la prima nomination agli Oscar come attore non protagonista.
Noi, invece, quell’anno colorato ma un po’ triste, che ci avvicinava sempre più al 2000, lo ricorderemo, oltre che per Benigni che bissa il successo di Johnny Stecchino con Il mostro, per un addio spaccacuore: quello di Massimo Troisi, che ci lascia il 4 giugno, dopo aver completato le riprese de Il Postino, presentato poi a Venezia. Sarà il quarto attore della storia a essere candidato in maniera postuma agli Oscar.