Il doping è l’ebola dello sport. Nell’editoriale dell’11 maggio 2014, sulle nostre pagine, abbiamo scritto del doping come una piaga dello sport sia professionistico sia amatoriale. Nei mesi seguenti il tema è tornato alla ribalta. Eppure da un po’ di giorni non se ne parla più. La guerra alle pratiche illecite è una faccenda complicata e semplicissima allo stesso tempo. Chi conosce o ha conosciuto negli ultimi mesi la vicenda Schwazer ha avuto davanti il classico caso delle guardie che rincorrono il ladro.
Obiettivo dell’inseguimento è ridurre il suo vantaggio e acchiapparlo di sorpresa prima che falsifichi il risultato di una competizione spargendo un contagio in grado di uccidere la credibilità dello spettacolo agonistico e tutto quanto ci gira intorno, business compreso.
Il filone ricostruito dai magistrati di Bolzano offre insegnamenti di puro buon senso che prescindono dalle considerazioni politiche. Se il marciatore altoatesino che ha vinto l’oro a Pechino 2008, arriva alla vigilia della sua seconda Olimpiade pieno di additivi come un uovo e viene fermato dal Cio e dalla Wada, qualcosa non funziona nei controlli antidoping italiani. Non è una novità. Tranne un breve e luminoso periodo nel quale i nostri inquirenti arrivarono a smantellare con l’Operaciòn Puerto il laboratorio del dottor Fuentes, il Coni non ha mai brillato per efficienza investigativa. Eppure, al contrario di altri Paesi, l’Italia ha una buona legge che fa del doping un reato penale, con la giustizia del Coni in possesso di tutti gli strumenti per agire.
I controlli in Italia sono affidati a un’agenzia, la Coni-Nado, che sulla carta gode di ampia autonomia.
In realtà è il Coni, che campa dei risultati ottenuti dagli atleti ai mondiali e alle Olimpiadi, a nominarne vertici e funzionari. Così, ogni volta che qualcuno viene pizzicato dalla Wada e non dai nostri si innesca il cortocircuito: controllato e controllore, se non sono proprio la stessa persona, certamente vivono sotto lo stesso tetto. E hanno interessi comuni. Ai tempi del professor Conconi era lo Stato a finanziare l’esperto dopatore. Oggi non si può più dire che le istituzioni abbiano incoraggiato pratiche illegali. Nelle carte del caso Schwazer non si ravvisa un disegno razionale e articolato. Semplicemente è accaduto che chi doveva vedere non ha visto. Resta da stabilire se sia una distrazione reiterata oppure se qualcuno abbia deliberatamente volto lo sguardo dall’altra parte.
In ogni caso, il sistema si è dimostrato un colabrodo. La quantità di atleti che sistematicamente aggiravano l’obbligo di reperibilità – sarebbero addirittura centinaia nelle varie discipline – autorizza il sospetto che il carabiniere di Vipiteno non fosse l’unico ad approfittarne. Sospetto, non certezza. Ma ugualmente inaccettabile perché i controlli a sorpresa, insieme al passaporto biologico, sono l’unica arma in grado di colpire gli abusi.
Controlli la cui terzietà, cioè l’indipendenza rispetto a tutti i soggetti interessati, dovrà essere garantita dal Coni. La soluzione più plausibile e drastica sarebbe quella di sottrarre al Foro Italico la potestà sull’antidoping.
L’autonomia dello sport resta un valore fondamentale, una garanzia non negoziabile anche di fronte all’emergenza.
L’esempio è l’Usada, l’agenzia americana che ha incastrato Lance Armstrong e Marion Jones. Nata dal comitato olimpico e affiliata alla Wada, gode di una totale indipendenza operativa.
Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, è un innovatore convinto e credibile in materia di antidoping.
Il governo, che ha altrettante responsabilità, deve dargli manforte e risposte rapide. L’Italia non vive soltanto di Jobs Act. Anche lo sport è importante e ha le sue urgenze.
Non credo all’assioma secondo cui allenandosi duramente e restando puliti, non si vince.
Ammettiamo che un sistema contro il doping efficiente e severo renda ancor più scarno il medagliere italiano a Rio 2016. Lo sport italiano perderebbe con onore per una giusta causa. Suona talmente bene da sembrare già una vittoria.
E se poi si vince davvero – come succederà a chi ha talento – il trionfo varrà il doppio.