Lei: giornalista e social player per importanti editori, ha conquistato la rete per la capacità di comunicare idee e sentimenti comuni (e per il nostro gruppo editoriale ha curato la rubrica #Cinquecoseche). Professionalitá a parte, il suo sorriso la rende a prescindere una webstar italiana.

Lui: è il figlio di Domitilla, si chiama Due gradi e mezzo di separazione. Come il networking facilita la circolazione delle idee (e fa girare l’economia), il libro scritto per Sperling & Kupfer che da poco più di un mese è disponibile in libreria.

Lei&lui, nelle ultime settimane, stanno facendo impazzire lettori, osservatori sociali ed internauti, che hanno iniziato a discutere del bel cambio di prospettiva proposto e, soprattutto, dell’educazione attraverso cui farlo.

Quanti gradi di separazione ci sono tra te e chiunque altro? Quanto sei lontano da ciò che renderà la tua vita più interessante? sono le domande che accompagnano la rivalutazione della teoria di fine anni Venti sui sei gradi di separazione tra noi e una qualsiasi altra persona al mondo.
L’osservazione dell’autrice è netta: grazie ai social media, i gradi di separazione tra le persone oggi sono meno di tre, perché fare networking facilita definitamente la circolazione delle idee e fa girare l’economia. Ne ho parlato direttamente con Domitilla Ferrari e questi sono i risultati della nostra chiacchierata.

Come spiegheresti a mia madre, che non ne sa nulla di digital, che cosa sono i due gradi e mezzo di separazione?

Credo che tua mamma di networking ne sappia già abbastanza, come tutti. Prova a chiederle se conosce qualcuno che vive nel paese accanto o quello dopo. E se non conoscesse nessuno, saprebbe come arrivarci? Ecco i gradi di separazione sono quelli che ci separano e collegano agli altri. Dipende da che punto di vista vogliamo vederli. Io sono in contatto con te e… per la proprietà transitiva sono in contatto con tua mamma: dille che sono a due gradi di separazione dal Papa.

Per emergere bisogna fare:
A – #cosebelle
B – un alter ego di Monica Bellucci che viva dentro di noi
C – networking

A+B+C.
Bisogna valorizzare le cose che facciamo, raccontandole agli altri con la convinzione che siano interessanti come le storie che leggiamo sulle riviste.

“Amici è una parola grossa”: cosa significa essere amici sui social network? In “Le paure che non devi avere” dici che molti sbagliano su una cosa che dovrebbe essere così scontata: dovremmo sempre distinguere l’amico dal follower, allora?

Gli amici sono quelli disposti a spendere il loro tempo per te senza chiedere nulla in cambio. Un’amicizia nata online non è diversa da una nata tra i banchi di scuola. Io non uso mai alla leggera la parola amico. Sai quelli che dicono di conoscere qualcuno e fanno quella cosa brutta di spendere nomi a caso solo per fare una buona impressione? Ecco, loro non sono amici di nessuno.

Chi sono gli immigrati digitali di cui parli nel libro?

Io, per esempio. Ma credo anche tu: tutti noi che siamo cresciuti con carta e penna e ci siamo abituati a vivere col digitale appena scoperto.

Personal branding e approvazione, siamo tutti non-personaggi in cerca di fama, ho tanti “mi piace” quindi esisto: sei d’accordo con queste affermazioni?

Più che altro: ho tanti like quindi ho detto qualcosa che interessa a qualcuno.

Se dovessimo definirlo come un’equazione, #duegradiemezzo = …?

Tempo per numero di contatti: più aumenta il tempo, però, più deve diminuire il numero di contatti a cui dedichi tempo. Altrimenti non tornano i conti.

Come hai messo a frutto tutte e cinque le “idee per iniziare” a fare networking?

Seleziono le persone che includo nella mia vita. Sembrerà snob, ma non posso avere tempo per tutti. Ho tanti amici che vedo pochissimo e vorrei vedere di più. Quindi tendo a coltivare il network più che a espanderlo. Mi fido delle persone e per questo mi fido a metterle in contatto. Mi piace conoscere le persone. E so che per avere qualcosa in comune bisogna trovare un punto di contatto, un interesse. Leggere, guardare la tv, anche (perché no?).
Twitter, da questo punto di vista insegna molto: seguo chi mi racconta cose nuove, che non so, o che mi regala un punto di vista diverso. Questo si può fare solo continuando a crescere, a studiare. E io continuo a farlo. Anche faticosamente, a volte. I tempi morti? Ne ho sempre meno, ma per fortuna prendo i mezzi pubblici e uso il tempo del viaggio per sentire gli amici, per recuperare letture che avevo accantonato.

Tra i “dieci errori da non fare”, invece, qual è secondo te l’errore per eccellenza?

Due in uno: cercare qualcuno solo quando e se ti serve.

Se dovessi dare un voto al tuo lavoro, con questo libro, da 1 a 10, quale sarebbe e perché?

Questa è la domanda difficile, vero? Possiamo chiederlo a chi lo ha letto? Magari non subito, tra un po’. Sono presuntuosa, penso di aver scritto un libro che serve a cambiare il mondo, nel modo in cui molti ancora si muovono per far carriera, per cercare/cambiare lavoro: se non ci piacciono questo modo e questo mondo, possiamo cambiarli.

All’interno della riflessione che hai proposto sulla circolazione delle idee grazie alla Rete, ritieni ci sia qualcosa che non è ancora maturato, oggi, ma che magari leggeremo in un prossimo libro di Domitilla Ferrari?

Sono una buona osservatrice. Quando la società sarà cambiata avrò, forse, altro da raccontare. Per ora so che troppo spesso mi capita di incontrare cattivi esempi da cui però imparo cosa non voglio essere. E per questo li ringrazio.

Perché hai detto che il tuo “non è un romanzo, per fortuna”?

Perché sono brava a raccontare le cose che osservo, non so inventare storie. È stata la mia fortuna: ho fatto per tanti anni la cronista e spiegare cosa succedeva in città mi veniva facile. In Due gradi e mezzo di separazione ho potuto scrivere ciò che vedo succedere nel Paese in cui vivo, online e offline e se parlo spesso di me è perché sono l’esempio che conosco meglio.

[Credits immagine: domitillaferrari.com]