Comunque vada la finale della ventesima edizione dei Mondiali di calcio sarà una replica. Non è successo spesso, due volte per la precisione: Brasile e Italia si sono contese il titolo nel 1970, giorno in cui Pelè sfidò le leggi di gravità restando in aria per 10 secondi, e nel 1994 quando gli americani sfidarono le regole del buonsenso facendo disputare la gara alle 13, in California. Argentina – Germania, invece, si ritrovarono contro per due edizioni di seguito: nel 1986 in Messico nel mondiale del Diez e nel 1990 in Italia. Fu un rigore molto dubbio, trasformato da Brehme, a regalare la coppa ai tedeschi durante le notti magiche.

Era una grande Germania quella del ’90: c’era Lothar Matthäus, Jürgen Klinsmann, il Kaiser Beckenbauer in panchina. Evitò l’Italia in finale e vinse il suo ultimo Mondiale. Quella attuale è una squadra più tecnica, un po’ meno esperta ma con un potenziale immenso, figlio dell’integrazione sociale e di un progetto a lungo termine iniziato nel 2006 e che può durare ancora a lungo, data l’età di Müller (24 anni e 10 gol in un Mondiale) e compagni. Dell’impresa di Belo Horizonte hanno parlato tutti, non mi sembra il caso di aggiungere altro. Il risultato, la rabbia di Neuer (che portiere, ragazzi) e Boateng dopo aver preso il gol dell’1 a 7 (!) dicono tutto sulla fame dei tedeschi. Gli abbracci finali con gli avversari dimostrano invece che fermarsi, non infierire, non fa parte della loro cultura, e nemmeno di quella sportiva.

Non ci resta che aspettare stasera per capire se la finale del Mondiale dei Mondiali sarà una replica del 1974, decisa da un altro Müller (e fossi un olandese inizierei a toccare ferro) o addirittura il terzo atto della sfida infinita tra tedeschi e argentini. Per l’Olanda sarebbe la quarta finale per l’Argentina la quinta. La Germania, che aspetta, è all’ottava, un record. Da sottolineare anche che nelle ultime 4 edizioni sono arrivati minimo in semifinale, tanto che Philipp Lahm prima della partita di ieri ha minacciato, ironicamente ma non troppo, i suoi compagni “Se dobbiamo giocare un’altra finale per il terzo posto me ne torno a casa“. Pericolo evitato, abbondantemente.

Arrivati alla ventesima edizione possiamo sdoganare, forse una volta per per tutte, il fattore campo. Un quarto (5 su 20) delle edizioni sono state vinte dai padroni di casa, è vero, ma dal 1980 in poi solo la Francia ha vinto, con merito, i Mondiali di casa. Per il resto la Germania ha vinto in Italia, l’Italia in Germania, la Spagna in Sudafrica (i padroni di casa non superarono la prima fase). Guardando a ritroso scopriamo che le prime due edizioni sono andate ai padroni di casa: in Uruguay giocavano nove squadre, in Italia il regime di Mussolini diede più di un aiutino alla compagine di Pozzo. E sempre a proposito di aiuti c’è la mano di un altro regime, quello militarista di Videla, nella vittoria del 1978 dell’Argentina, in un contesto socio-economico che definire problematico è un eufemismo.

Ebbe più stile l’Inghilterra quando conquistò il suo unico alloro internazionale sebbene il (non) gol di Hurst gridi ancora vendetta. Non rubò nulla la Germania Ovest nel 1974. Non hanno mai rubato nulla, onestamente, i tedeschi a parte quel rigorino del ’90. Ma non fu colpa loro, a qualcuno Maradona stava troppo antipatico, altra storia. La verità è che eliminati i sospetti e caduti i regimi il fattore campo è diventato più un elemento di pressione, che un vantaggio reale. È vero, giochi davanti al tuo pubblico, ma è altrettanto vero che devi vincere e convincere. Che le pressioni aumentano, con il passare degli anni e dei media che si moltiplicano.

È accaduto che grandi nazionali non abbiano retto il peso di questa pressione. Figuriamoci se non poteva succedere ad un Brasile che non è mai sembrato così normale. Julio Cesar, David Luiz, Fred e Scolari si ricorderanno questa partita per tutta la vita. Il Mineriazo resterà nella memoria dei brasiliani per altri cento anni. Forse dovremmo rivedere questo luogo comune nel calcio moderno; che vincere i Mondiali in casa è diventato un’impresa da eroi e che di eroi, in questo Brasile non ce n’erano. Al massimo qualche grande talento, ma quanto avrebbero influito ieri? Essere profeti in patria non è mai stato così difficile.

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