L’emergenza migranti è ormai sotto gli occhi di tutti da tanto, troppo tempo e non può più essere relegata a un affare della sola Italia o della sola Grecia, ma neppure della sola Europa. È un’emergenza internazionale e, in quanto tale, l’Onu non può più solamente lanciare moniti e condanne verso i metodi che i Paesi in prima linea utilizzano per l’accoglienza, come spesso siamo abituati ad ascoltare. È ora che l’Onu passi al fronte ad fiancheggiare chi da anni salva vite in mare ed evita tragedie più grandi di quelle che affollano tv e giornali.

Sono più di 140 mila fino ad oggi i rifugiati e migranti che hanno attraversato il Mediterraneo verso l’Europa, oltre l’80% in più dallo stesso periodo del 2014. La maggioranza è in fuga da guerre, conflitti o persecuzioni. Arrivano dalla Siria, dall’Afganistan, dall’Eritrea, dalla Libia e da altri Paesi dove le parole che riecheggiano di più per le strade sono morte e disperazione. Proprio le stesse che spingono loro ad affrontare un viaggio dove altra morte è pronta a risucchiarli nel profondo delle acque. E mentre a nord del Mediterraneo si discute la questione della ridislocazione dei migranti all’interno dello spazio Schengen, mentre continua il rimpallo dei disperati, bloccati all’una o all’altra frontiera, mentre c’è chi alza muri in una nostalgica operazione di stupidità, dall’altra parte in tanti si apprestano a partire ritenendo l’altra sponda l’unica ancora di salvezza.

E così che continua a perpetrarsi una tragedia annunciata di gente che muore dentro a una stiva, in una valigia, cacciata in mare. Una situazione talmente grave e complessa che un singolo Paese non può essere in grado di risolvere. Ma neppure l`Europa, che dal canto suo può e deve fare molto di più, può riuscirci. È un’emergenza internazionale, la crisi è a livello mondiale, perché è giusto accogliere ma anche dare possibilità di futuro, tenendo conto dei contesti. Per questo è opportuno, oltre che urgente, da una parte aiutare i Paesi di provenienza e, dall`altra, perseguire con rigore scafisti e altri oscuri decisori che speculano sulla pelle dei disperati. L’organismo internazionale preposto a tutto ciò esiste e si chiama Onu. Le Nazioni Unite, infatti, hanno tra le proprie funzioni quella di cooperare nella risoluzione dei problemi internazionali e nella promozione del rispetto per i diritti umani. Compito che assolvono limitandosi a condannare e bacchettare i governi nel momento in cui adottano misure dure. Ma quando il Palazzo di Vetro si trova a dover prendere decisioni si rivela latitante e mostra tutti i propri limiti.

L’Onu oggi è un’organizzazione composta da un groviglio di enti, consigli e organi che diventano solo luoghi di enormi vaniloqui, di movimenti di opinione di carattere ideologico che non si misurano mai in maniera positiva e costruttiva con il problema. Centinaia e centinaia di funzionari dell’Onu che passano il tempo a discutere di questi problemi in studi ovattati a migliaia di chilometri dal teatro delle tragedie. Senza mai sporcarsi le mani, senza mai capire fino in fondo il problema. L’Onu dice che non si possono respingere gli aspiranti rifugiati. Ovvio. Ma la ricetta del Palazzo di Vetro è fallace e limitata. La ripetizione del ritornello burocratico dell’accoglienza e dell’aiuto in loco è quanto di più attivo l’Onu si sforzi di fare. Non un solo passo nell’assumersi responsabilità precise e operative.

Serve una profonda riforma delle Nazioni Unite, liberandole da tutte quelle incrostazioni accumulate nei decenni. Se si vuole legittimare ancora la su esistenza, serve la rinascita di un Onu forte e realmente arbitro, per intervenire seriamente nei punti di crisi con funzioni operative e, soprattutto, capace di prendere decisioni che non si limitino all’indignazione. Perché non è l’indignazione a impedire che tali tragedie avvengano. I problemi possono cominciare ad essere avviati a una certa soluzione se tutti – singoli, popoli, gruppi, nazioni e, soprattutto, istituzioni internazionali – si prendono la loro responsabilità.