C’era un tempo in cui i fan erano solo fan. Un tempo in cui club, fanzine e fan fiction erano la massima espressione dell’attaccamento appassionato e irrazionale ad una qualsiasi forma della cultura popolare, che fosse un libro, un film, una band o un programma tv. Poi è arrivato Internet. E il mondo del fandom, sopratutto quello televisivo, è stato totalmente rivoluzionato. La rete non solo ha connesso sostenitori sparsi in tutto il mondo, ma ha fatto anche sì che la loro voce uscisse al di fuori delle comunità virtuali. Il pubblico esprime opinioni, critiche e teorie sulle loro serie preferite in un modo mai visto prima. Non più audience passiva quindi, ma un gruppo di ascolto sempre più attivo, critico e competente. I fan ideali insomma per la serialità di ultima generazione, sempre più raffinata e complessa.
Fino a qualche decennio fa la “risposta” del pubblico si limitava agli indici di ascolto, tutt’al più a qualche telefonata o lettera di lamentele ai vertici di rete. Oggi non più. L’interattività attraverso i social media, soprattutto Twitter, ha notevolmente colmato il divario tra produttori degli show, sceneggiatori e i fan, e ora la “lamentela” la si fa direttamente alla fonte. E non sono pochi gli autori che hanno ammesso di tenere in considerazione i feedback degli spettatori quando scrivono le loro serie. A volte farlo consente di aggiustare il tiro di qualche storyline particolarmente trascurata o di promuovere qualche attore particolarmente apprezzato da guest-star a regolare (Esempio: Colin O’Donoghue come Capitan Uncino in Once Upon A Time). Altre volte il pubblico fa domande, si interroga sulle incongruenze narrative e in qualche modo si deve rispondere.

Gli autori di Lost, Damon Lindelof e Carlton Cuse, lo hanno fatto ad esempio attraverso Hurley: con i suoi commenti, che sembrano fuori luogo, il personaggio di Jorge Garcia si fa portavoce del pubblico, inserendo i loro dubbi e preoccupazioni all’interno della trama. Questo tipo di coinvolgimento lo ritroviamo anche in due serie britanniche cult. Quando nel finale della seconda stagione Sherlock muore – o meglio, finge di morire -, la domanda che resta in sospeso per oltre due anni è: “come ha fatto a salvarsi?”. Nell’attesa le speculazioni dei seguaci si sprecano. La soluzione al mistero, nell’episodio The Empty Hearse, il primo della terza serie, prende in prestito proprio la creatività dei fan e in due lunghe sequenze ci vengono mostrate alcune delle più bizzarre e suggestive teorie che hanno escogitato (da una relazione omoerotica con il suo acerrimo nemico a un volo con il bungee jumping), lasciandoci però col dubbio su quale sia la più plausibile; la diatriba su quante rigenerazioni fossero rimaste a Doctor Who, delle dodici originarie, per anni ha coinvolto intere generazioni di spettatori della serie più longeva della storia. Fino all’episodio natalizio del 2013, The time of the Doctor, in cui Stephen Moffat ha risolto la questione con un colpo di scena da manuale, concedendo al Dottore un’altra dozzina di rigenerazioni fisiche. Con buona pace del fandom.

Tuttavia i showrunner che pendono dalle labbra dei fandom per fortuna rimangono in minoranza. Il chiacchiericcio virtuale può essere molto utile per tastare la reazione di chi guarda, ma quando si tratta di decisioni creative, le writing rooms dei network sono off limits. In qualche caso, però, l’indignazione dei fan ha realmente cambiato il corso di una trama. Quando il creatore di Glee, Ryan Murphy, annunciò che Rachel, Finn e Kurt si sarebbero laureati e quindi non ci sarebbero stati nella quarta stagione, i Gleeks hanno inondato la rete con tweet e post talmente adirati da costringere i produttori a tornare immediatamente sui loro passi. La stessa cosa hanno fatto Robert e Michelle King di fronte alla reazione negativa del pubblico al ritorno dell’ex marito di Kalinda in The Good Wife, riducendo drasticamente gli episodi dedicati alla storyline.

Dalla semplice richiesta di dare più spazio a un personaggio minore o di farne tornare uno andato via, al determinare l’andamento di interi episodi o stagioni, l’influenza del fandom sulle serie tv non si riduce solo ai contenuti, ma assume molte altre sfumature. Più volte, facendo fronte comune, i fan sono riusciti a scongiurare la cancellazione della serie che amavano anche adottando soluzioni originali: dalle 20 tonnellate di noccioline inviate alla CBS dai fan di Jericho (poi cancellata), alle migliaia di bottiglie di Salsa Tabasco spedite ai produttori di Roswell (rinnovata per due stagioni), dalla petizione online per salvare Mad Men fino alla raccolta di sangue organizzata dai fan della serie Moonlight; nel caso di Veronica Mars, invece, il potere del fandom si è concretizzato in una raccolta di fondi attraverso Kickstarter per realizzare una versione cinematografica della serie. Il minimo dei 2 milioni di dollari è stato ampiamente superato e il film è uscito nei cinema statunitensi a marzo 2014.

Di fronte a questa ingerenza dei fandom c’è chi crede che la televisione stia rischiando di allontanarsi dalla sua autonomia artistica; in realtà è la stessa natura in continua evoluzione della serialità televisiva a renderla suscettibile di influenze esterne. A differenza di un libro o di un film, che sono prodotti già compiuti quando vengono fruiti, nelle serie tv storie e personaggi possono essere modificati e rimodellati all’infinito, fino a quando non verrà scritta definitivamente la parola fine. Se alcune serie dimostrano che fantasie e desideri dei fans possono essere utilizzati in maniera creativa all’interno di una trama, in altri casi però cercare di andare incontro a quello si pensa vogliano i spettatori, ha generato enormi disastri (vedi il deludente finale di How You Met your mother). Insomma, alla fine, fandom o no, ciò che veramente deve contare per gli autori è creare il miglior show possibile. Anche facendo orecchie da mercante qualche volta. Del resto è impossibile accontentare tutti. Qualcuno che avrà da ridire ci sarà sempre.
[Credit Photo Cover: Ward Sutton/NY Times]