Quanto sono distanti scuola e lavoro? La formazione scolastica aiuta nella ricerca di una occupazione? Il rapporto intermedio Education at a Glance dell’OCSE prova a fornire delle risposte, anche se le premesse non sono confortanti. In media sono il 5,3% i laureati senza lavoro, contro il 13,7% di chi non ha un diploma. In Italia, invece, la percentuale aumenta al 16% per chi è uscito dall’Università con il famoso “pezzo di carta”. La vera novità di questa ricerca è, però, rappresentata da un altro primato, non troppo lusinghiero, detenuto dal Belpaese: la generazione NEET (Not in Education, Employment or Training).
Il rapporto Education at a Glance Interim Report: Update of Employment and Educational Attainment Indicators rivela che un giovane ogni sei tra i 25 e i 34 anni nei paesi OCSE non ha le capacità considerate essenziali per interagire nella società attuale. La colpa, in parte, è da attribuire alle riforme sulla scuola che faticano a incidere sulla formazione, oltre a quelle che rimangono sulla carta senza poterne nemmeno valutare i relativi benefici. Nel confronto internazionale, inoltre, l’Italia ha la propensione maggiore al fenomeno della dispersione e la minore esposizione al lavoro.
L’OCSE spiega che i tassi di disoccupazione e di occupazione sono sicuramente utili indicatori di come le persone sono coinvolte nel mercato del lavoro ma lo è ancor di più la percentuale di giovani né occupati né in fase di istruzione o formazione , i NEET. Sembra, infatti, essere il miglior indicatore per misurare le difficoltà che questi si trovano a fronteggiare quando sono alla ricerca di un posto di lavoro, in quanto comprende non solo quelli che non riescono a trovare un lavoro (disoccupati) ma anche coloro che non lo cercano attivamente (inattivi). Acquista una grande importanza perché è equiparato alla misura della capacità delle persone di adattarsi al cambiamento e alle trasformazioni del mercato del lavoro.
Le età più importanti da guardare quando si analizza la popolazione NEET sono dai 20 ai 24 anni. Nel 2013, l’Italia, la Grecia, la Spagna e la Turchia sono stati gli unici paesi in cui più del 30% della fascia compresa tra 20 e 24 anni era NEET. La Turchia sembrerebbe messa peggio degli altri, ma, a ben vedere, è anche l’unico paese tra questi quattro a mostrare un netto calo tra il 2005 (50%) e il 2013 (36%).
Un capitolo della ricerca è incentrato, poi, sul tempo in cui scuola e lavoro viaggiano paralleli. In alcuni Paesi è considerato normale studiare e lavorare insieme. Non in Italia, però, o almeno non ancora, visto che nella popolazione dai 15 ai 29 anni meno del 5% lavora per 10 ore a settimana, rispetto al 50% dei coetanei di Canada, Islanda e Stati Uniti, che tocca anche le 34 ore a settimana. In Danimarca, Svezia, Paesi Bassi e Repubblica Ceca, invece, più del 50% lavora durante gli studi per un monte settimanale di 9 ore circa.
Questi diversi livelli di occupazione possono essere, sicuramente, spiegati dalle differenze culturali, economiche e sociali tra i paesi. In alcuni paesi, ad esempio, gli studenti sono soliti attendere fino al termine degli studi prima di cercare un posto di lavoro, mentre in altri sono più inclini a lavorare durante gli studi con il fine di acquisire una certa esperienza sul mercato del lavoro o di finanziare i loro studi (e/o altre spese). In quest’ultimo caso, poiché il lavoro si presenta come un’attività concomitante con l’educazione e l’apprendimento, l’attenzione dovrebbe essere rivolta all’intensità (ore lavorative), assicurandosi che gli studenti abbiano tempo sufficiente da dedicare alla loro preparazione e che il lavoro non diventi un ostacolo alla formazione. Diverse ricerche, comunque, testimoniano la ricaduta positiva sull’apprendimento del connubio tra studio e lavoro.
Il fenomeno dei NEET e l’enorme disparità nell’alternanza studio-lavoro all’interno del contesto internazionale sono riconducibili, dunque, a pochi importanti fattori. Basti pensare che nei paesi OCSE oltre il 12% della spesa pubblica viene investito nell’istruzione. Il che dovrebbe lasciar presagire se non ottimi, almeno buoni risultati. Questo studio ha, tuttavia, evidenziato che ci sono notevoli differenze nel modo di spendere le risorse finanziarie e nei risultati degli investimenti nell’istruzione. È opportuno auspicare che anche in Italia i responsabili delle politiche e le altre parti interessate del settore dell’istruzione possano apprendere, grazie a queste ricerche, come i loro omologhi in altri Paesi hanno risposto e continuano a rispondere a sfide condivise, che siano per i giovani e per la loro crescita. Per abbandonare questo triste primato e tornare a credere in un futuro possibile anche in Italia.
[Cover source: learnnovators.com]