Il concetto di smart working è entrato già da qualche anno nel lessico interno di imprese, agenzie e startup italiane. In Italia circa la metà delle grandi aziende sta avviando progetti in tal senso e anche il governo ha recepito, seppur parzialmente, questo trend con un disegno di legge approvato lo scorso 28 gennaio dal Consiglio dei Ministri. Eppure, la confusione su cosa significhi davvero “lavoro agile”, su come mettere in atto una strategia efficace di change management e su quali benefici possa portare, rimane enorme.
Un po’ di ordine, innanzitutto. Non si tratta di telelavoro. Lo smart worker non è colui che è riuscito a trasformare il tavolo di casa nella postazione d’ufficio aziendale. Allo stesso modo, non basta identificarlo come lavoro delocalizzato o coworking. Volendone fare un teorema, si può dire che flessibilità e condivisione degli spazi lavorativi sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Tratti distintivi, ma di certo non gli unici e nemmeno i più importanti.
Philip Vanhoutte e Guy Clapperton, autori del libro “The Smarter Working Manifesto”, ne delineano bene i tre asset principali, le 3 B: Bricks, Bytes e Behaviours. Mattoni, tecnologia e comportamenti.
È necessario seguire il flusso logico del cambiamento e, di certo, la ristrutturazione della sede (Bricks) non può essere l’inizio. Al contrario, deve essere il risultato della modernizzazione della cultura organizzativa e della cooperazione interna. Il cambiamento della cultura lavorativa (Behaviours), infatti, è l’elemento fondamentale dello smart working e richiede uno sforzo collettivo da parte di tutti gli interessati.
Solo in seguito è possibile intervenire sugli elementi di Information Technology (Bytes) di un’azienda selezionando le piattaforme tecnologiche e le applicazioni più idonee al modello di lavoro definito.
Molto spesso accade che un progetto smart working abbia inizio con la riorganizzazione degli spazi aziendali o il trasferimento in nuovi uffici, più belli e confortevoli. In alcuni casi, invece, il solo cambiamento strutturale dell’ufficio viene etichettato come un progetto smart working, ignorando che il vero cambiamento parte sempre dalla cultura e dai comportamenti dei workers e non da una semplice ristrutturazione della sede.
Lo smart working rivede completamente i concetti di tempo, spazio e approccio quotidiano al lavoro. Diciamo addio ai classici orari d’ufficio e affidiamoci a focus concreti da raggiungere. La regola è ottenere i risultati previsti nei tempi prefissati, al massimo della qualità. Uno smart worker deve essere, quindi, responsabilizzato ed educato alla gestione del tempo. Per arrivare a questo bisogna coinvolgere le persone al massimo, raccoglierne entusiasmi e perplessità: solo un professionista che crede in un progetto e lo sposa come proprio vorrà vederlo ultimato quanto prima, gestendo i propri orari e dando massima priorità al progetto stesso.
D’altro canto, il lavoro agile fa sì che le persone abbiano una maggiore autonomia e una maggiore responsabilità su quando, dove e come lavorare, e su come conciliare esigenze personali e necessità di business. In tal senso bene si esprime la relazione introduttiva al disegno di legge sulle nuove misure per il lavoro autonomo: definisce il lavoro agile una «modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro».
I progetti che navigano in questa direzione hanno connotazioni molto diverse a seconda del contesto aziendale e delle esigenze, ma in generale solo il 48% delle aziende che dichiarano di fare smart working porta avanti iniziative sistematiche su tutte le diverse leve (policy di flessibilità oraria o di luogo di lavoro, strumenti digitali, layout fisici e programmi di formazione tesi a modificare comportamenti e stili di leadership).
La tecnologia dal canto suo può adempiere, allo stesso tempo, a due ruoli diversi: da una parte permette di superare due paure nella gestione delle risorse (manager che temono di “perdere di vista” i dipendenti e dipendenti che “perdono di vista” i loro obiettivi), dall’altra migliora la produttività e aumenta la collaborazione attraverso soluzioni quali instant messaging, email, video conference call, condivisione di desktop, etc. Senza dubbio le aziende devono dotare tutti dipendenti, indipendentemente dalla loro ubicazione geografica, degli strumenti e delle conoscenze necessarie per ottimizzare la loro esperienza di lavoro flessibile. Senza questo l’intero processo non potrebbe mai raggiungere il suo pieno potenziale.
Lo smart working rappresenta, quindi, una vera e propria trasformazione digitale e culturale, uno stimolo per la creatività con modalità di lavoro meno rigide e più confacenti a una società liquida come quella del nostro tempo. Oggi la tecnologia rende tutto questo possibile e perfino i legislatori ne hanno finalmente preso atto.