“Vivere per lavorare” o “lavorare per vivere”, un dilemma che attanaglia l’uomo dalla notte dei tempi. Almeno una volta nella vita ognuno di noi ha avuto l’impressione di essere un’equilibrista, costretto a districarsi tra impegni di lavoro, figli, cura della casa, interessi personali. Il work-life balance indica la conciliazione tra la vita personale e la vita professionale. É un concetto ed una pratica che nasce, si sviluppa e si traduce nella necessità di trovare il giusto equilibrio tra ciò che possiamo realizzare sul lavoro e quanto possiamo ottenere in qualità di vita nel tempo di non-lavoro. In Italia, una pratica ancora poco conosciuta.
La netta distinzione fra lavoro e vita privata è frutto di un retaggio culturale tramandato di padre in figlio, che tende a tracciare una forte linea di separazione tra i due ambiti. Una precisa differenziazione a livello di tempi, modi e relazioni. Vi è, invece, una stretta correlazione tra la vita lavorativa e quella al di fuori del lavoro, e il work-life balance altro non è che la sintesi/soluzione di un concetto che sta interessando uomini e, soprattutto, donne dei tempi moderni. Numerosi studi e ricerche si prodigano da anni nel tentativo di dimostrare quanto gioverebbe al nostro paese e all’Europa intera sviluppare politiche che consentano un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata, che favorirebbe, inoltre, un maggior coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro. Eppure non è chiaro se le misure promulgate negli ultimi anni vadano nella direzione prioritaria di favorire strutturalmente tale processo di inclusione e, in generale, non è chiaro se intendano davvero accompagnare il cambiamento culturale epocale che stiamo vivendo attraverso la diffusione della cosiddetta “flessibilità buona”. L’accezione di flessibilità, infatti, non è univoca, e non viene utilizzata con lo stesso significato. Come del resto il termine “produttività”.

Ci si riferisce al termine flessibilità per indicare il livello di elasticità con cui i lavoratori entrano/escono dal mercato del lavoro. Si parla spesso, infatti, di flessibilità in uscita dal mercato (licenziamenti) e in ingresso (assunzioni). L’Unione Europea da anni sollecita la flessibilizzazione del mercato del lavoro raccomandando da un lato la predisposizione di una strumentazione volta ad assicurare il passaggio da un posto di lavoro all’altro riducendo i disagi derivanti da periodi di disoccupazione o inattività, dall’altro individuando il contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma contrattuale prevalente. In questa direzione ha inteso andare anche la Legge n. 92/2012, meglio conosciuta come Riforma Fornero, che accanto ad una facilitazione dei meccanismi di uscita dal mercato del lavoro (procedure di licenziamento) ha predisposto un sistema di ammortizzatori sociali. Va da sé che il termine “flessibilità” così inteso è poco gradito ai lavoratori e alle lavoratrici, poiché li espone maggiormente al rischio di perdere il posto di lavoro con poche o nulle garanzie di immediato ingresso.
Una seconda accezione di flessibilità riguarda invece l’orario di lavoro ovvero il monte ore che ciascun dipendente è tenuto a prestare adempiendo al contratto di lavoro che ha sottoscritto.
La terza grande area cui ci si riferisce usando lo stesso termine, infine, è la flessibilità che gli addetti ai lavori definiscono funzionale anziché numerica. È una accezione che ridefinisce l’orario di lavoro non solo sulla base delle esigenze aziendali e produttive legate al “numero” dei lavoratori ma anche di quelle del lavoratore stesso e che ammette che gruppi e categorie di lavoratori possano individuare profili orari diversi. Tali istituti/strumenti consentono ai lavoratori di ridefinire il proprio orario di lavoro in accordo con l’azienda ma rispondendo al contempo a necessità derivanti dalla organizzazione della propria vita privata. Si tratta in particolare dell’istituto della banca delle ore, del telelavoro, della flessibilità in entrata e uscita, del lavoro a distanza, del part-time, di quello che alcune aziende hanno ribattezzato lavoro agile (o smart working). Ad eccezione della flessibilità di orario in entrata e uscita che viene talvolta disciplinata a livello di contratto collettivo nazionale, aziendale o individuale, gli altri strumenti citati sono normati dal codice del lavoro. Eppure non sono sempre e diffusamente utilizzati.
Il lavoro agile è una soluzione ancora troppo conosciuta nella teoria e poco nella pratica, almeno nel nostro paese. Tale ritrosia è dovuta soprattutto a ragioni culturali: manager e datori di lavoro non sempre posseggono strumenti adeguati alla misurazione della prestazione lavorativa in alternativa alla presenza in ufficio dei collaboratori.
Recenti ricerche (McKinsey & Company, 2015) effettuate per indagare il livello di soddisfazione sul lavoro documentano l’esigenza dei lavoratori e delle lavoratrici di poter usufruire di maggiore flessibilità. Il 75% dei lavoratori è soddisfatto del proprio orario di lavoro ma l’85% desidera conciliare meglio famiglia e lavoro, il 58% gradirebbe una maggiore elasticità oraria e il 42% una introduzione almeno parziale, del telelavoro. I servizi che al momento vengono offerti più frequentemente sono, nell’ordine, buoni pasto o mensa (79%), flessibilità (orario ridotto o telelavoro, 58%), assistenza medica o burocratica (36%), servizi di conciliazione casa-famiglia (23%), benefit ricreativi e culturali (19%), servizi di mobilità (13%).

È innegabile che un cambiamento e una evoluzione siano in atto. Molte aziende si stanno dotando di accordi, procedure, regolamenti e modelli organizzativi in grado di disciplinare e adottare strumenti di flessibilità oraria che non siano soltanto il risultato di esigenze produttive ma anche di necessità familiari e personali dei propri collaboratori. Sono soprattutto le grandi aziende ad adottare per prime strumenti in grado di accompagnare il cambiamento. Le aziende medio-piccole si dividono tra quelle che nella prassi già concedono e comprendono la flessibilità, e altre che invece tendono a resistere adducendo come principale motivazione la difficoltà a misurare, verificare, controllare il livello di produttività dei propri dipendenti se non attraverso la garanzia della presenza fisica sul luogo di lavoro.
Ma perché un’azienda dovrebbe essere interessata a proporre e sostenere programmi volti al benessere dei propri dipendenti? Oltre ad essere un obiettivo morale, etico e sociale, numerosi altri studi hanno dimostrato come il sostenere la conciliazione lavoro-vita privata in azienda, attraverso strumenti che liberano, riducono o articolano diversamente il tempo di lavoro, contribuisca a incrementare il livello di soddisfazione dei lavoratori, e ciò, a sua volta, ha una ricaduta positiva sul profitto aziendale in quanto si riscontra una riduzione dei tassi di assenteismo e dei ritardi. Contribuisce, inoltre, a sviluppare la capacità di attrarre e trattenere talenti. Ciò comporta una sensibile diminuzione del turnover e migliora il livello di produttività aziendale, sviluppando politiche di crescita e formazione. Aumenta, infine, la propensione alla autonomia e l’assunzione di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi, oltre a ridurre la difettosità del prodotto/servizio e il conseguente aumento della qualità.
In Italia la gestione del work-life balance all’interno del contesto lavorativo è appannaggio del datore di lavoro. Nel complesso, nella classifica sul tema stilata dall’Ocse, il nostro paese è solo al 26° posto tra Polonia e Irlanda, mentre le prime posizioni sono occupate da Danimarca, Norvegia e Olanda. Raggiungere un adeguato equilibrio non è importante solo per migliorare le proprie condizioni di vita, è un traguardo fondamentale per il benessere sociale ed economico di tutta una comunità. E l’Italia, per ora, ne è ancora ben lontana.