Quando ti ritrovi davanti un interlocutore simpatico e disponibile, nonostante gli inconvenienti dell’ultimo minuto e la linea telefonica che fa brutti scherzi, è facile che quella che doveva essere solo un’intervista si trasformi in una chiacchierata lunga, piacevole e appassionata. Sì, perché l’interlocutore in questione, Edoardo Purgatori, del suo lavoro di attore e del cinema è un grande appassionato. Lo si nota da tante piccole cose: dalle parole di apprezzamento verso i suoi colleghi, dalle citazioni cinematografiche che ci fa, ma, soprattutto, dalla inesauribile voglia di parlare dei tanti progetti che lo vedranno coinvolto nei prossimi mesi. Quella per il cinema è una passione che in qualche modo deve avere ereditato dai suoi genitori (il padre, italiano, è giornalista e sceneggiatore, la madre, tedesca, storica dell’arte e attrice, n.d.r.), e che ha portato avanti poi con impegno e tanto studio, trasformandola in un lavoro che, in breve tempo, gli ha regalato ruoli sempre più importanti tra teatro impegnato, tv e grande schermo. Come quello che lo vedrà nel cast di La Grande rabbia (dal 28 aprile in sala) di Claudio Fragasso, una storia di amicizia e di riscatto sullo sfondo di una periferia romana sconvolta dalle rivolte anti-immigrati. Una periferia che mai come quest’anno è tornata sotto i riflettori del cinema italiano, contribuendo ad alzare l’asticella di qualità di un comparto dato per morto, e che invece scoppia di salute. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Edoardo Purgatori, generoso e orgoglioso nel raccontarci le sue prossime sfide: da una fiction sulla Prima Guerra Mondiale ad un’altra sulla vita del grande pilota Nuvolari. E inevitabilmente la nostra chiacchierata è finita su Un Medico in Famiglia, la fiction più longeva della tv italiana che ad autunno tornerà con la decima stagione. Una stagione che vedrà una presenza fissa anche di Emiliano Lupi, il personaggio interpretato da Edoardo, a cui abbiamo provato ad estorcere qualche anticipazione, non senza difficoltà. Scoprite cosa ci ha raccontato.
Cominciamo parlando del tuo nuovo film, La Grande Rabbia, una sorta di instant movie girato nel pieno dell’accesa rivolta anti-immigrati della borgata di Tor Sapienza.
Gli scontri di Tor Sapienza ci sono stati tra ottobre e novembre 2014, e proprio in quel momento mi ha contattato il regista, Claudio Fragasso, che assieme a sua moglie nonché sceneggiatrice, Rossella Drudi, avevano iniziano a documentarsi e a buttare giù il canovaccio di quella che poi sarebbe stata la sceneggiatura del film. E siamo andati lì, telecamera in spalla, a intervistare le persone che vivono a Tor Sapienza. La storia che raccontiamo noi, nell’arco di una sola giornata, è quella di due amici fraterni Matteo e Benny, interpretati da Maurizio Merli – che nel film poi sarebbe mio fratello – e Miguel Gobbo Diaz, due ragazzi che vivono in questo quartiere periferico durante questi scontri. Il mio personaggio invece è quello di Stefano, poliziotto e fratello minore del protagonista. Lui lavora nel reparto mobile che viene mandato a presidiare il quartiere. E anche lui si ritroverà invischiato, sia come cittadino sia come rappresentante dello Stato, in questi scontri che poi sfoceranno, non dico come, in un finale abbastanza forte.
Cosa ti ha colpito di più del progetto?
Sicuramente il fatto che il film fosse indipendente al 100%. Non c’era un grande produttore alle spalle né i fondi del Ministero anche perché, essendo un instant movie, non c’è stato nemmeno il tempo di fare l’iter classico per i chiederli. E quello che io ho apprezzato di più, nel far parte di un progetto così indipendente, diretto da un regista che fa cinema a grandi livelli, è stata la grande passione che ci abbiamo messo nel farlo ma anche la grande responsabilità che veniva richiesta a ciascuno di noi, perché se già normalmente i tempi di un film sono stretti, qui lo erano ancora di più; e poi la tematica importante e scottante dell’immigrazione, basta leggere tutti i giorni il giornale. Ed è in questo contesto che poi abbiamo voluto a raccontare soprattutto una storia di amicizia.

In questo contesto, una periferia dove l’estraneo diventa il nemico, tu però sei dall’altra parte della barricata, quello delle istituzioni. Che lavoro hai fatto per calarti nei panni di un poliziotto?
Non avendo mai fatto nè il poliziotto né tantomeno il militare, sono andato a documentarmi da veri poliziotti del reparto mobile per scoprire da vicino come lavorano. E ho scoperto che quando vengono mandati nelle zone che devono andare a presidiare, con un ordine che arriva dal questore appena il giorno prima, che si tratti di una manifestazione o di sia un centro di accoglienza, come nel caso del film, loro non possono in alcun modo reagire, quando vengono insultati o attaccati fisicamente, a meno che non ci sia un rischio o un pericolo alla propria persona. Quando devono usare il manganello, non lo fanno per far male ma perché si deve neutralizzare nel modo più veloce il facinoroso o quello che sia, ovviamente poi c’è tutto il capitolo di chi li accusa di violenza gratuita, che tralascio. La mia fortuna durante le riprese è stata che accanto a me c’erano poliziotti veri, alcuni erano stati a Genova, durante il G8, altri erano stati mandati proprio a Tor Sapienza. E questo mi ha aiutato tantissimo per comprendere da vicino le dinamiche di quello che fanno.
La Grande Rabbia sembra chiudere il cerchio a quella ideale trilogia della periferia romana iniziata da Non Essere Cattivo e Lo Chiamavano Jeeg Robot: sguardi diversi su terre dimenticate, ostaggio di violenza e degrado ma aperte alla speranza. Secondo te, da queste tre opere che chiave di lettura si può cogliere sulla società in cui viviamo oggi?
Li ho visti entrambi, e tra l’altro avevo fatto anche il provino per il ruolo di Cesare (in Non essere cattivo, n.d.r.), poi giustamente hanno preso Luca Marinelli che è stato bravissimo ad interpretarlo.
Ambientando in periferia certe storie, di qualunque genere esse siano, anche di supereroi come per Lo chiamavano Jeeg Robot, ti da la possibilità di raccontare certi personaggi in cui ci si riconosce. È un po’ come tornare al Neorealismo e alle atmosfere di certi film di Pasolini e Fellini. La periferia è un po’ lo specchio di quello che è la città, perché è lì che scorre la vita reale. Un film come I nostri ragazzi, su quei due adolescenti che ammazzano di botte un barbone, calato in un contesto borghese ti arriva in un modo sicuramente diverso rispetto a quello più crudo e ruvido di un film ambientato in un contesto più disagiato. Le periferie ti permettono invece di raccontare tematiche anche forti ma in chiave più reale, e pensando a Non essere cattivo quasi poetica. In La Grande Rabbia, la storia è sì quella di una grande amicizia tra questi due ragazzi, e tra i due fratelli e all’interno della famiglia, ma inserita nel contesto di una periferia lasciata a sé stessa che è un po’ se vogliamo lo specchio della società in cui stiamo vivendo. Dove lo Stato lascia a sé stessi i cittadini si crea confusione, e il cittadino non sentendosi tutelato arriva anche a farsi giustizia da solo, che è poi quello che è successo a Tor Sapienza.

Ritroverai la divisa anche nella mini serie Il Confine, che dovrebbe andare in onda su Raiuno in autunno. Ce ne parli?
È un progetto molto importante che si focalizzerà sulla Prima Guerra Mondiale e le storie di tanti giovani ragazzi italiani morti nel conflitto. Il 15-18 è stato un periodo storico che ha segnato profondamente e in negativo la generazione dei nostri nonni e dei nostri bisnonni. Noi racconteremo la storia di un gruppo di giovani soldati che si trova al confine tra Italia e Austria, durante quella che inizialmente si pensava sarebbe stata una guerra lampo e che poi si è rivelato un massacro. Filippo Scicchitano, Caterina Shulha e Alan Cappelli Goetz saranno i protagonisti di questo triangolo amoroso e di amicizia, io interpreto un soldato piemontese che si ritrova a combattere nel plotone di Alpini capitanato da Scicchitano. La struttura narrativa delle due puntate ricorda se vogliamo il film Il Cacciatore di Michael Cimmino: nella prima parte si racconta la vita di questi ragazzi prima della guerra, la loro amicizia, i loro sogni, le aspirazioni, poi l’inizio del conflitto alla fine della prima puntata e nella seconda parte gli effetti che questa avrà sulle loro vite. Personalmente è stata un’esperienza un po’ particolare, perché durante le riprese mi è capitato di rileggere Ungaretti, e farlo lì, per quanto sapessi di trovarmi su di un set cinematografico, mi ha lasciato una sensazione diversa, rispetto a quando lo avevo studiato a scuola, permettendomi di rivalutare e comprendere un autore e un periodo storico che fino ad allora potevo solo immaginare nella mia mente. È stata davvero un’esperienza molto sentita da tutti: passavamo 12 ore in mezzo a queste trincee, nel fango, a girare scene di guerra, e si respirava un’aria diversa da quella che si respira normalmente su un set, perché avvertivamo la responsabilità e il dovere morale di stare raccontando non tanto i fatti storici, che sono quelli che sono, ma la vita di persone che sono state realmente segnate da quell’evento.
Il prossimo sarà un autunno importante per te visto che tornerà in onda Un Medico in Famiglia 10. Puoi già anticiparci qualcosa riguardo Emiliano e la sua storia con Anna?
Alla fine della nona stagione avevamo lasciato Emiliano ed Anna in partenza per Parigi per chiedere aiuto a Lele, dopo che Anna aveva pagato tutti i debiti di Emiliano con lo spacciatore. Quando la decima serie inizierà Emiliano sarà scomparso, non voglio dire per quanto perché vale la pena aspettare. Ci sarà un grande mistero insomma intorno a lui ma anche intorno ad Anna, per altri motivi ovviamente. Quello che posso dire in più è che il mio personaggio sarà molto più presente nella prossima stagione e che il rapporto tra lui ed Anna sarà più maturo perché dovrà confrontarsi con tematiche ancora più importanti di quelle affrontate nelle ultime stagioni, la droga nella nona stagione e nell’ottava la crescita e il passaggio da bambina a donna.
Un Medico in famiglia è tra le serie italiane più amate dal pubblico. Qual è, secondo te, il segreto di questa sua fortunata longevità?
Come tutte le serie che durano tante stagioni diventa sempre più difficile trovare storie nuove che appassionino la gente, ma la forza di Un Medico in famiglia sta sicuramente nella semplicità di ciò che racconta: storie in cui tutti possono riconoscersi, dai bambini ai nonni, e poi nel modo in cui lo fa, senza troppe pretese e con quella chiave comica che però riesce anche a far riflettere; poi credo che con il passare del tempo ci si affezioni ai personaggi che si guardano, penso al personaggio di Anna che interpreta Eleonora Cadeddu, il pubblico l’ha vista praticamente crescere. E devo dire che anche io ho avuto questa fortuna perché il mio Emiliano è stato accolto da subito con grande affetto e simpatia.

Prima di Un Medico in famiglia 10 però dovresti essere anche nel cast di Ben Hur, remake del classico di William Wyler.
In realtà la storia è un po’ più complicata. A gennaio dell’anno scorso feci il provino per cinque ruoli diversi, poi andai a Matera sul set per un makeup test e fui preso. Incominciai a prepararmi fisicamente, con dieta e allenamenti duri, perché avrei dovuto interpretare il ruolo dello schiavo compagno di remo di Ben-Hur, nella sequenza all’interno della galera che anticipava la fuga del protagonista. Era una parte importante, circa 20 minuti di film. Prima di girare, per due settimane, ci portavano su questa barca che avevano ricostruito completamente a fare le prove di remata. La cosa pazzesca di queste grandi produzioni è l’imponenza delle scenografie e delle persone coinvolte: oltre a questa grande galera dove ci stavano circa 120 persone, tra attori, stuntmen e veri canottieri, hanno ricostruito la vecchia Roma a Matera e il Circo Massimo a Cinecittà World. Ma al primo giorno di riprese, prima di iniziare a girare la prima scena, il produttore mi dice che c’erano stati dei problemi di sceneggiatura e che il mio personaggio era cambiato. Per fartela breve, l’attore principale era troppo mingherlino e aveva paura di sfigurare con me accanto. E quindi gli hanno messo vicino uno della stessa stazza, pure un po’ pelato, mentre a me hanno proposto di restare a fare una comparsa. Allora li ho ringraziati e sono andato via. E forse è stato un po’ il destino perché lasciato il set di Ben Hur subito, dopo due giorni, ero già in Friuli pronto a girare Il Confine.
E ora a cosa stai lavorando?
Sto per girare un film su Tazio Nuvolari diretto da Tonino Zangardi. Gireremo in lingua inglese, e successivamente verrà doppiato in italiano. Io interpreto Achille Varzi, amico di una vita e storico antagonista di Nuvolari. Non si può parlare dell’uno senza menzionare anche l’altro.
Avendo avuto già esperienze di lavoro all’estero, hai mai pensato di lasciare l’Italia definitivamente e costruirti una carriera altrove?
Per metà sono tedesco, ho studiato alla Oxford School of Drama, e poi a Londra, Los Angeles. Lavoro già in Germania e in Inghilterra. Spero in futuro anche in America, ma di base però voglio restare in Italia, a Roma.

L’Orso d’Oro di Fuocoammare, il trionfo di Lo chiamavano Jeeg Robot ai David Di Donatello e il premio della sceneggiatura di Perfetti Sconosciuti al Tribeca Film Festival. La rinascita del nostro cinema è già compiuta o è ancora lontana dall’esserlo?
Da quando La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar diciamo pure che il nostro cinema sta riavendo quella visibilità che merita anche all’estero. Registi come Garrone o Muccino vengono apprezzati e lavorano anche al di fuori dell’Italia, o guarda serie tv come Gomorra e Suburra che verrà prodotta da Netflix Italia: stiamo cominciando, in ritardo, a fare dei progetti che sono interessanti anche per il mercato estero, non più solo per il pubblico che guarda Don Matteo o Montalbano, ma anche per quello abituato a guardare prodotti seriali internazionali di alta qualità. L’Italia è molto meno industria rispetto alla Francia ad esempio, dove si fanno 400 film all’anno e ci stanno più possibilità che ne vengano fuori almeno 10 belli, siamo più una forma di artigianato noi, con un tot di film all’anno, anche d’autore, che se fatti bene però hanno valore. Il semplice fatto che venga premiata la sceneggiatura al Tribeca parla tanto, la sceneggiatura è lo scheletro del film, se tu vai a premiare quello significa che si è apprezzata l’idea, ed è quasi più importante che vincere come miglior film. Quindi, per rispondere: la rinascita non è compiuta ma è in atto, ci siamo dentro ed ora come ora è molto stimolante stare in Italia, perché è un momento ricco di possibilità da un punto di vista artistico. Poi bisogna sperare che registi di nuova generazione come Mainetti, che io stimo tantissimo, e attori sempre più giovani riescano a trovare lo spazio per fare progetti e continuare a fare film in quel modo. Solo così si può creare quel meccanismo di crescita, di sviluppo e di trasformazione che speriamo, da qui ai prossimi 5-10 anni, potrebbe rilanciare il nostro paese. Mainetti ci ha messo otto anni per realizzare Lo chiamavano Jeeg Robot, ci ha messo soldi anche di tasca sua e alla fine ha vinto anche il David come migliore produttore. C’è bisogno di gente disposta a rischiare, tutti gli dicevano che era assurdo raccontare una storia di un supereroe della periferia romana e invece….
Dando uno sguardo alla tua pagina Facebook mi ha colpito la frase di James Dean che hai postato: “Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai.” Cosa significa per te fare questo mestiere? E soprattutto, come si diventa un buon attore?
Tecnicamente ci si mette dieci anni a diventare attore, a imparare il mestiere insomma, ma credo che alla fine, qualsiasi lavoro si faccia, siano fondamentali la vocazione, la passione e quello che si ha da dire sulla vita e sul mondo che ci circonda. Ed è anche una responsabilità fare questo lavoro, almeno per me lo è. Ci vuole passione, ci vuole tempo, impegno e tanto studio. È una ricerca infinita che va intrapresa solo se lo si ama altrimenti è inutile.