Tutti i giorni nel mondo milioni di persone combattono tra la vita e la morte.
Il nome di Brittany Maynard oggi risuona forte tra le tante storie perché, annunciandolo al mondo intero, tra la vita e la morte Brittany ha scelto l’eutanasia. Il destino non aveva in serbo per lei una soluzione alternativa: Brittany combatteva tutti i giorni con una forma terminale di cancro al cervello che l’avrebbe condotta ad una morte lenta e dolorosa. Ma naturale. Quella che la Chiesa ritiene l’unica fine dignitosa della vita. Poco importa se la vita in questione è quella di qualcun altro. Se non possiamo comprendere il suo dolore e sopportare, come un macigno, il peso di un percorso che costringe a cercare non un motivo per andare avanti, bensì uno per farla finita in fretta.
“Questa donna – ha detto Monsignor Carrasco de Paula – lo ha fatto pensando di morire dignitosamente, ma è qui l’errore, suicidarsi non è una cosa buona, è una cosa cattiva perché è dire no alla propria vita e a tutto ciò che significa rispetto alla nostra missione nel mondo e verso le persone che si hanno vicino”. (Ansa, ndr.)
Ha parlato di dignità dalle porte del Vaticano Carrasco de Paula, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mentre nella casa di Portland in Oregon Brittany aveva appena salutato i suoi cari affermando che “Le persone più felici sono quelle che si fermano ad apprezzare la vita e che rendono grazie”. E Brittany ha reso grazie fino all’ultimo, documentando minuto per minuto le ragioni della sua scelta e condividendo con tutti la sua storia affinché non fosse vana.
Una storia che ha riaperto un dibattito che da sempre separa i pensieri delle grandi menti al potere.
Sì, perché quello dell’eutanasia è un discorso al limite tra la fede, il moralismo e la scienza. Ma quello che sfugge, forse, è che in casi come quello di Brittany non è una scelta al limite con la vita. Nulla ha a che vedere con la tanto proclamata coscienza di chi decide nel pieno della consapevolezza di porre fine al proprio cammino e lo fa racchiudendo in questa scelta l’unica speranza di essere accompagnati da uno spirito sereno, come ogni persona meriterebbe.
E come Brittany sono numerosi coloro che vivono nell’agonia di una vita che non è vita.
La vita è un’altra cosa e Mina Welby si batte da anni per dare voce al dolore delle troppe persone che richiedono di porre fine alla loro sofferenza, senza nessuno che possa aiutarli davvero, a patto che questi non diventino malati clandestini verso paesi in cui l’eutanasia è legale. Perché ci sono malattie che non si possono guarire. Ci sono dolori che non si possono sopportare e cure che nulla possono risolvere. Un malato di cancro, ad esempio, ha il diritto di essere informato del percorso che sta intraprendendo e del fatto che la sua dura lotta quotidiana non lo condurrà verso nessuna soluzione. E, quindi, dovrebbe essere solo suo il dovere di decidere se intraprendere questo cammino verso la morte, o abbandonarsi alla vita che è stata, con tutto l’amore nei confronti di essa e la dignità di chi non ha via d’uscita, ma il coraggio di uscirne ugualmente vincitore.
Si sprecano le parole utilizzate nei confronti della scelta dell’eutanasia.
Al punto che abbiamo sentito parlare di movimento pre-morte. Al punto che ci sfugge il centro della questione: l’attenzione rischia di spostarsi dalla critica nei confronti della possibilità di essere liberi di scegliere di morire quando si vuole – come afferma l’oncologo Umberto Veronesi – alla critica mossa nei confronti dell’individuo che ha fatto in modo di smettere di vivere. Il passaggio che sfugge è che Brittany, come i tanti malati terminali al mondo, non era più un individuo libero, bensì imprigionato nel dolore fisico e psichico di un male lancinante e inguaribile. Brittany, dunque, non era più un individuo in vita.
[Fonte: wp.production.patheos.com]