Gomorra-La Serie ha abbassato il sipario della prima stagione con un movimento appena accennato di dita, quelle di Genny Savastano (Salvatore Esposito). 700mila spettatori medi registrati dai dodici episodi che hanno lasciato gli spettatori assetati in attesa di una seconda stagione già annunciata. Un cast di professionisti; una regia d’eccezione; una fotografia attenta; musiche d’impatto; un copione avvincente: questi – e non solo – gli ingredienti di un prodotto che oggi esporta il Made in Italy in 50 Paesi; tanti infatti i mercati dove la serie è stata venduta prima ancora di andare in onda.

Dopo aver ascoltato le dichiarazioni esclusive dei due protagonisti, Salvatore Esposito e Marco D’Amore, abbiamo raggiunto telefonicamente Fortunato Cerlino, l’interprete del personaggio tra i più carismatici della serie: Don Pietro Savastano. Il Boss, tenuto parzialmente in disparte a causa della detenzione, ha svelato lo stratega che si nasconde in lui nel gran finale di stagione. L’evasione di Don Pietro dal carcere è la scena con cui abbiamo salutato Fortunato Cerlino in attesa di rivederlo nella resa dei conti che si prospetta sarà il cuore della seconda stagione.

Il tuo personaggio attraversa un percorso particolare. Prima leader e Boss spietato, poi detenuto dall’evidente involuzione psicologica e comportamentale. Nel gran finale, invece, Don Pietro, si svela, quasi a rivelare che l’involuzione nel penitenziario era stata strumentale all’evasione.

Fortunato: “Sì, questa scelta testimonia che tutte le vicende che raccontiamo sono scritte da Saviano e sono ispirate alla cronaca. Alcuni Boss sanno che se si fanno dare l’infermità mentale scatta il trasferimento, buona occasione per evadere. E’ accaduto anche di recente nella realtà”.

Don Pietro Savastano lo definiresti più uno stratega, un burattinaio o un Padrino?

Fortunato: “Nessuna delle tre cose. E’ soltanto un uomo disperato che probabilmente ha fatto della sua vita un capolavoro del male, decidendo di distruggere le vite degli altri e fare commercio sulla morte”.

Alla notizia della morte di Donna Imma c’è una calma apparente da parte di Don Pietro. Che significato ha avuto questa scena per te?

Fortunato: “Una scena molto complicata, nel senso anche della sua bellezza. Dovevo ricevere una notizia terribile ma non tradire le mie emozioni per non compromettere il progetto di fuga. Don Pietro in questa scena dimostra anche la natura delle sue psicosi, in quanto riesce a manipolare così bene le sue emozioni da rimanere impassibile alla notizia della moglie morta”.

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La tua detenzione fotografa la situazione delle carceri. Denunciare lo stato delle carceri italiane era tra gli obiettivi della serie?

Fortunato: “Assolutamente sì. Le puntate dal carcere sono state accolte molto bene da pubblico e critica perché da tempo non si vedeva un film che parlava delle carceri, girato nelle carceri. Noi siamo stati aiutati da Gaetano Di Vaio, che ha scritto ‘Non mi avrete mai’, il quale ci ha aiutato a raccontare la condizione del carcere italiano, avendo avuto esperienza diretta. Il carcere dovrebbe essere un luogo per risolvere certe problematiche, invece per lo stato in cui versa diventa lesivo sia per il detenuto sia per le guardie, contribuendo alla crescita del criminale. A Napoli, infatti, tra i camorristi che vanno in carcere si dice ‘Hai fatto l’università’. Andare in carcere nella realtà napoletana è come prendere un diploma. Magari uno entra lì perché ha fatto uno scippo e invece ne esce fuori che è diventato un affiliato”.

In un articolo uscito negli scorsi giorni su Repubblica, Saviano fa un bilancio della serie, a conclusione della prima stagione, e parla di “cecità degli amministratori”, riferendosi alle istituzioni, in particolare campane. Ritieni la serie abbia aiutato a vedere chi si rifiutava di guardare la realtà sotto i suoi occhi?

Fortunato: “Decisamente sì. Mi piace citare Falcone. Lui diceva che gli strumenti per la lotta alle mafie esistono in questo Paese, ma spesso praticati con indolenza, la quale diventa una colpa. In genere le mafie e le camorre sono più veloci dello Stato, fino ad essere imprendibili. Questa distrazione da parte dello Stato nel non voler vedere diventa una colpa. Roberto (Saviano) centra l’argomento”.

Saviano ha poi aggiunto: ‘se non conosciamo la storia di chi sceglie il male, come possiamo poi conoscere il bene?’. In questo modo ha giustificato la scelta di ritrarre scene molto crude, difficili da digerire per gli spettatori, come un modo per sensibilizzare, determinare una reazione. Ritieni che la serie abbia alla fine sortito questo effetto?

Fortunato: “Credo che questa sia la peculiarità assoluta di questa serie. Si è tornati a guardare la realtà senza falsi moralismi e filtri, non girando lo sguardo ma mettendo la faccia fino in fondo, come ha detto Marco D’Amore nella tua intervista. Il limite di questa operazione è che non si tratta di fiction, bensì raccontiamo la cronaca, e la cronaca è accaduta sulla pelle delle persone. La crudeltà nel far vedere il male così com’è era un’urgenza di tutti noi, dalla produzione al cast”.

L’immedesimazione e la conseguente emulazione è stata ritenuta un rischio per gli spettatori più fragili. In realtà i protagonisti non appaiono come eroi vincenti, bensì come soldati manovrati dal Male, quasi “vittime” di un cancro. Che risposta dai tu ai critici più severi?

Fortunato: “Nella conferenza stampa iniziale noi avevamo invitato ad aspettare, perché un progetto in dodici episodi ha una sua evoluzione. Dove potevano crearsi degli equivoci di affetto nei confronti di un personaggio, questo poi nella narrazione ha calato giù la maschera. Se c’è volontà di emulazione di un camorrista che uccide una ragazza di vent’anni (Ciro Di Marzio), piuttosto che di un altro che ammazza suo nipote, la responsabilità non è più della fiction ma del setting, dovrebbero andare in analisi. […] Bene chiarire che i camorristi vanno visti come vittime di un sistema solo in termini di analisi antropologica, ma non in termini di responsabilità, per quella non hanno giustificazione. Questa visione mi interessa come chiave per denunciare un mancato intervento da parte dello Stato, che diventa un punto dolente”.

Il Corriere tempo addietro ha diffuso la notizia circa l’affitto e il pagamento delle spese di ristrutturazione della casa del Boss di Scampia, la dimora che sul set ospita “casa Savastano”. Il giornale ha lanciato una provocazione: combattere la camorra, finanziando la camorra? Quanto c’è di vero?

Fortunato: “Questa critica si inserisce nell’insieme che denota una volontà di speculazione. La realtà napoletana è complessa. Se arrivi in un posto, chiedi dei servizi, non conosci i referenti e puoi incorrere in problematiche di questo tipo. La vicenda è stata poi chiarita tempestivamente perché questi soldi non sono mai arrivati alla camorra. Si è scoperto in realtà che la casa apparteneva a un vero Boss, la produzione non lo sapeva prima però. Sono state messe in moto le istituzioni immediatamente, infatti c’è un conto gestito da un procuratore e questi soldi sono congelati e in mano allo Stato. Quando si chiarirà la posizione di quel personaggio, i soldi si sbloccheranno. Ma la produzione si è tutelata subito”.

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Quanto della tua esperienza teatrale c’è nella tua performance attoriale in Gomorra? Quanto ti ha aiutato il Teatro?

Fortunato: “Il Teatro aiuta nella tecnica. L’intuizione di prendere professionisti per interpretare questi ruoli è stata la scelta vincente di Stefano Sollima e Laura Muccino, perché un professionista conosce la mappa per entrare in certi ruoli, in certe fasi emotive, ma conosce anche la via d’uscita. Personalmente ho una tecnica che mi fa lavorare sulla maschera interiore per la creazione emotiva e psicologica di un personaggio. Poi, grazie alle tecniche di compensazione, so che posso uscire da lì. E’ un gioco profondo e solo se sei professionista puoi giocare nelle partite difficili”.

Continua Fortunato:

“Ho fatto un lavoro sul corpo, sulla respirazione, sul contenimento della rabbia. Quando tornavo a casa dal set, grazie alla mia tecnica di decompressione, dovevo fare una doccia bollente, sciogliermi, leggere, spegnere il cellulare e non sentire nessuno, per poi tornare alla mia vita normale”.

Qual è il ricordo più bello che ti porti dietro dalle riprese?

Fortunato: “Il set. Le persone che ho incontrato. I colleghi. I reparti. Ci sono delle esperienze che sembrano degli appuntamenti e questa lo è stata. Noi ci siamo riuniti il martedì sera tutti insieme per vedere le puntate, insieme a produzione, regia, trucco: si è creata un’atmosfera di famiglia. Sai quando si ha il piacere di andare a lavorare? In questo caso noi abbiamo avuto questa fortuna. Quando un attore arriva sul set per una scena complicata e chi gli sta intorno, a partire dagli elettricisti, lo aiuta, creando le condizioni adatte perché capisce quello che sta facendo, allora diventa una famiglia professionale”.

L’annuncio della seconda stagione è stato accolto con estrema gioia. Cosa aspettarci?

Fortunato: “La fiction continua nel solco della narrazione di Saviano. Sicuramente ci saranno delle esigenze di copione da rispettare, ma si continuerà a raccontare la verità e la cronaca, la guerra degli scissionisti e altro. Non si sa ancora la data d’inizio delle riprese, ma finché non si termina la fase di scrittura non si può calendarizzare il set. So solo che si farà il prima possibile per non far attendere troppo”.

La frase che ancora non ti è stata rivolta sulla tua performance e da chi vorresti riceverla?

Fortunato: “Bella domanda. Nessuno me lo ha mai chiesto. Mi rifaccio al teatro. Quando termina uno spettacolo, più che dire ‘complimenti’ o ‘bravo’, si usa una formula che significa ‘grazie per aver lavorato per me’. Ecco, questa formula è quella che mi piacerebbe ascoltare”.

[Credits: SKY Atlantic]